Se impedisce a una donna di abortire, un magistrato è degno di censura. Così ha stabilito qualche giorno fa la Corte di Cassazione (sentenza 3780), confermando una decisione del Consiglio Superiore della Magistratura. La vicenda, avvenuta nel 2012 a Brescia, ha visto coinvolta una detenuta agli arresti domiciliari, che aveva richiesto la libertà temporanea, per effettuare l’interruzione di gravidanza. Il giudice le aveva negato tale possibilità in quanto, a suo avviso, l’aborto non rientrava tra i parametri di urgenza, in grado di giustificare l’abbandono momentaneo del carcere o della propria abitazione. Non ricorrevano, cioè, i «presupposti di legge».
La donna si era quindi rivolta a un avvocato, accollandosi le spese per quest’ultimo, e aveva ottenuto la facoltà di abortire, proprio a ridosso del limite temporale legale per tale atto. Un rinvio da lei ritenuto fortemente pregiudizievole sia a livello psicologico che economico.
La Cassazione ha espresso una visione diametralmente opposta a quella del magistrato, asserendo che l’aborto non rientra soltanto tra le esigenze materiali ma fa parte anche della «libertà di scelta e di autodeterminazione della donna di interrompere la gravidanza», a tutela della propria salute fisica e psichica (come previsto nella Legge 194). Il Pubblico Ministero ha pertanto definito la scelta di ricorrere all’aborto «un diritto personalissimo che non tollera limitazioni a causa dello stato di detenzione».
Alla base della sanzione nei confronti del magistrato vi sarebbe l’assenza della motivazione, attraverso la quale sarebbe «possibile verificare se il giudice abbia applicato la legge in conformità all’obbligo esclusivo di soggezione ad essa, posto dall’art. 101 Cost.».
La sezione del CSM aveva individuato la natura della «lesione» nei confronti della ricorrente nel «mancato rispetto, nell’esercizio delle funzioni, della dignità della persona», attraverso un «provvedimento immotivato» che andava a negare «la soddisfazione di una fondamentale esigenza di vita strettamente connessa alla salute psico-fisica». La non motivazione da parte del giudice avrebbe «ingiustificatamente compromesso e messo a rischio la soddisfazione di un interesse primario per la persona coinvolta».
Il magistrato aveva poi chiesto di rimettere il fascicolo ad un’altra sezione, nel momento in cui la detenuta aveva reiterato la richiesta, manifestando così la sua obiezione di coscienza. Questa rivendicazione, però, pur essendo definita impropria, sia dal CSM sia dalla Cassazione, è stata considerata come una richiesta di astensione, quindi non censurabile.
Un passo indietro, dunque, per l’obiezione di coscienza dei magistrati. Un passo avanti, invece, per l’aborto come diritto.