09/09/2018

Autodeterminazione della donna e reificazione dell’umano

Abbiamo visto, nella Parte I, che in virtù del principio di autodeterminazione della donna, il concepito può essere rimosso come un ostacolo da un percorso, ed è perciò davvero difficile vedere dove possa risiedere il “valore morale” che certe femministe dicono di volergli riconoscere. Meglio venire allo scoperto come fece Natalia Ginzburg sul Corriere della Sera del 7/2/1975: «Trovo ipocrita affermare che abortire non è uccidere. Abortire è uccidere. Il diritto di abortire deve essere l’unico diritto di uccidere che la gente deve chiedere alla legge».
Quantomeno, viva la sincerità.

Autodeterminazione e realtà delle cose

A questo punto arriviamo al secondo aspetto della questione; è qui che l’autodeterminazione manifesta la sua “onnipotenza”, rivelando le sue vere radici filosofiche. Con l’esercizio di questo potere la donna è letteralmente in grado di mutare la realtà delle cose: l’ordinamento giuridico, riconoscendo il diritto all’autodeterminazione come diritto sostanzialmente illimitato, consente alla volontà del soggetto di modificare l’oggetto che ha dinanzi secondo una logica completamente arbitraria. Così, dal consenso della madre si fa dipendere la dignità del concepito, quindi la sua natura, quindi la natura dell’atto che lo elimina; e perciò il danno che il medico abortista arreca all’embrione è illecito se la madre desidera il figlio, lecito in caso contrario. Lo stesso, identico figlio vede mutare il suo “statuto ontologico” da gemma preziosa in rifiuto organico secondo la predisposizione soggettiva della madre. Per questo è sensato parlare di “onnipotenza” dell’autodeterminazione, perché si tratta di un potere che, nella sua essenza, non è a disposizione di nessuno al mondo: il potere di cambiare la realtà; quella realtà che ormai è divenuta totalmente manipolabile, non più soltanto sul piano della tecnica, ma innanzitutto a livello del pensiero.

La post-modernità è la degna erede della filosofia moderna che ha gettato le basi di un soggettivismo sempre più esasperato e che è giunta, seguendo questa falsariga, a fondare una cultura in cui l’individuo e la società vivono nel più completo distacco dal reale. Di più: una cultura in cui l’individuo e la società pretendono di “creare” il reale secondo le proprie esigenze. Ed ecco aprirsi l’età “dei diritti”, dove non si ricerca più il loro fondamento ontologico, ma s’indaga esclusivamente la coscienza sociale, lo “spirito del popolo”. Questo perché ormai il senso collettivo dei valori ha perso ogni ancoraggio alla legge naturale. Perciò se il popolo rivendica, sulla base del proprio “sentire”, come diritto ciò che fino ad allora era stato giudicato, sulla base dell’evidenza, un delitto, lo Stato non può far altro che cedere. «La capacità della donna di decidere in prima persona della propria fecondità, l’autodeterminazione, diventa il concetto chiave del femminismo del secondo Novecento […]. In questo quadro la legislazione che criminalizza l’interruzione volontaria della gravidanza diventa l’emblema dell’espropriazione del corpo e dell’identità femminile. È in questa fase che prende forma l’idea dell’aborto come diritto civile, il primo tra i tanti da reclamare» (G. Galeotti, Storia dell’aborto, pp. 102-104). La rivendicazione del diritto di aborto ha sempre mosso dalla condizione della donna, mai da quella del concepito: il “punto di vista” è sempre stato quello della madre, mai quello del figlio. Non a caso tutti gli slogan femministi si concentrano sulla donna utilizzando parole come “corpo”, “pancia”, “utero”; nell’ambito del dibattito si fa uso al massimo del termine “gravidanza”, ma non figura mai colui che è il vero oggetto dell’atto abortivo; perché è lapalissiano che l’aborto agisce nei confronti di una “sostanza” che non è l’utero, ma è contenuta nell’utero.

La cancellazione del bambino (e del padre)

Si tratta di una vera e propria sterilizzazione del linguaggio che è indice di una precisa strategia: l’obiettivo politico era di ottenere la liberazione della donna attraverso il controllo della funzione riproduttiva, e in ragione di questo obiettivo è stata sviluppata una bioetica finalizzata a lasciare al centro della scena solo uno dei protagonisti della vicenda: la donna. Oggi affermare che la gravidanza apre una relazione irriducibile che coinvolge ben tre soggetti (il concepito, la madre e il padre) e che pertanto non è questione esclusiva della donna, appare come un attentato alla libertà femminile. Eppure se si guarda alla dinamica naturale, biologica e fattuale, non si può logicamente giungere a conclusione diversa. È verissimo che il percorso della gravidanza è attraversato principalmente dalla donna che ne porta quasi tutto il “peso” in termini di limitazioni alla libertà e di effetti sul proprio corpo; ma questa condizione non può giustificare una sovranità assoluta della donna tale da escludere completamente dalla vicenda il padre (che è genitore nella stessa misura della madre) e ignorare il figlio. Insomma il perseguimento della parità conduce a un esito paradossale che afferma la supremazia della donna in grado di silenziare l’uomo e reificare il proprio figlio.

Vincenzo Gubitosi

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