Con questo articolo iniziamo una sintetica trattazione in quattro parti sul principio di autodeterminazione che, dalle rivendicazioni femministe della seconda metà del Novecento, è assurto a principio generale dell’ordinamento giuridico come totem intoccabile. Cercheremo di mostrare le stridenti contraddizioni implicite all’accettazione di un simile “diritto” in seno alla società.
Il pensiero femminista
«Penso che a renderci persone sia il sì della madre che ci mette al mondo […]. Di questo sì ogni donna è sovrana. Non c’è stato, non c’è chiesa, non c’è uomo che lo può imporre o impedire. Non può essere regolato da leggi, non può essere argomento di diritto né oggetto della giustizia che regola i conflitti […]. Penso che l’aborto sia sempre un momento grave nella vita di una donna. Abortendo una donna nega la sua potenza di generare. È un momento così grave e così suo che appunto per questo lo stato, gli uomini, la società intera devono tacere». (A. Bocchetti cit. in M. Palmaro, Aborto & 194, Fenomenologia di una legge ingiusta, Milano 2008, p. 202).
Con queste parole la giornalista Alessandra Bocchetti coglie in pieno l’essenza profonda del principio di autodeterminazione e ne illustra la portata sociale nella maniera più esplicita e diretta. Giustamente è stato ricordato che per gran parte del movimento femminista questo concetto, prim’ancora che un dato giuridico, riflette un contenuto etico, in quanto «principio che deriva da un gesto di separazione della donna dalle relazioni con l’uomo e col mondo per ripiegarsi su di sé» (C. Mancina, Oltre il femminismo, Le donne nella società pluralista, Bologna 2002, p. 79).
Ecco la prima rivendicazione del femminismo, la “politica del corpo”: «Se si era riusciti tanto a lungo ad asservire le donne, ciò era stato in virtù dell’ancoramento della sessualità femminile alla funzione riproduttiva: slogan come padrone della nostra pancia o l’utero è mio esprimevano questa volontà femminile di non subire più scelte e condizionamenti esterni» (G. Galeotti, Storia dell’aborto, Il Mulino, Bologna 2003, p. 104).
Il filo rosso che sin dalle origini attraversa il pensiero femminista della “seconda ondata”, dunque, è il diritto della donna di emanciparsi dalla sua condizione di subordinazione per mezzo del controllo del proprio corpo. «L’evoluzione della condizione della donna trova una spiegazione nella convergenza di questi due fattori: partecipazione alla produzione, liberazione dalla schiavitù della riproduzione»; così scrive Simone de Beauvoir nel suo celebre “manifesto” femminista (S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Milano 2012, p. 142).
La liberazione della donna dalla sua “inferiorità sociale”, perciò, dipende anche dalla sua capacità di appropriarsi di quello che è sempre stato vissuto come un «destino biologico» e che, invece, deve poter essere il frutto di una libera scelta. Coerentemente con questa impostazione di fondo, l’autodeterminazione è definita come l’atto grazie al quale la donna è in grado di recidere i lacci che per secoli l’hanno tenuta legata a una sorte non sempre voluta e molto spesso subìta. Esercitando questa signoria sul proprio corpo, la donna può finalmente separare la sessualità dalla procreazione affermando la propria centralità di soggetto nella relazione tra i sessi: in questo modo ha la possibilità di prendere originariamente le distanze da un “ruolo” che non le può essere imposto, ma dev’essere scelto.
Perciò la dimensione autentica dell’autodeterminazione della donna può essere individuata in una padronanza assoluta, coestensiva al proprio corpo e a qualsiasi vicenda possa interessarlo, a cominciare dalla gravidanza. È qualcosa di nuovo e rivoluzionario, che non può essere ridotto al concetto di libertà che presuppone in ogni caso, quale che sia la prospettiva culturale, un certo grado di regolazione. L’unico precedente ideologico che si può richiamare sembra essere quello libertario nella sua dimensione più radicale: la rivendicazione femminista esige il riconoscimento di un potere illimitato, anche se circoscritto al proprio corpo, quale condizione imprescindibile (sebbene non unica) per realizzare la piena uguaglianza tra uomini e donne.
Scrive in proposito la femminista Claudia Mancina:
«In questo ripiegamento su se stessa, la donna non trova la radice dell’autodeterminazione nella libertà individuale – che appare come un principio astratto – ma nello specifico e particolarissimo potere di generare iscritto nel suo corpo. […] L’autodeterminazione così intesa finisce dunque per essere un principio ancora più onnipotente di quanto si suppone sia l’astratta libertà individuale: mentre questa infatti accetta il limite della mediazione istituzionale e della regolazione giuridica – insieme con le quali, del resto, è nata alla storia politica occidentale – quella presume di non avere limiti esterni. Ma qui interessa osservare il legame stretto, originario, che stringe l’autodeterminazione alla separazione di sessualità e riproduzione. [...] Ed è chiaro che la contraccezione sicura è una precondizione di tale libertà […]. Ma quali sono le ambivalenze, le inevitabili tortuosità di questo processo? […] Quando una donna, pur essendo del tutto in grado dal punto di vista materiale e culturale di accedere a metodi sicuri, fallisce la contraccezione e si trova di fronte all’aborto, che cosa non ha funzionato?» (C. Mancina, Oltre il femminismo, pp. 79-81).
Una risposta potrebbe essere la seguente: «In una società dove si ricorre massicciamente alla contraccezione, la gente pensa di poter compiere atti sessuali senza la preoccupazione legata a possibili gravidanze indesiderate. […] I contraccettivi promuovono nella società una mentalità che tende ad escludere, e a escludere con certezza, l’eventualità di un figlio. […] Ecco perché, in linea di massima, quanto più una società è abituata alla contraccezione, tanto più è orientata all’aborto come rimedio al fallimento contraccettivo» (M. Palmaro, Aborto & 194, p. 146).
In ogni caso, a prescindere dal discorso sociologico sulle cause del fenomeno, ciò che conta è l’esplicita ammissione che il diritto all’autodeterminazione legittimerebbe l’aborto anche come “contraccettivo d’emergenza”. In nome dell’autodeterminazione il concepito è ridotto a nulla di più che una cosa, un oggetto di cui disporre praticamente per qualunque motivo.
Di fronte all’autodeterminazione della donna, la dignità del concepito scompare
Da questo rapido sguardo alla dimensione politica del femminismo emerge la vera natura del principio di autodeterminazione che si rivela essere, di fatto, motivo di arresto dello Stato di diritto dinanzi alla volontà di potenza della donna. Ciò significa che non è logicamente possibile difendere allo stesso tempo il principio di autodeterminazione e la più misera dignità dell’embrione. Claudia Mancina, che nel brano riportato asserisce chiaramente la legittimità dell’aborto in funzione contraccettiva, altrove afferma che «l’embrione non è persona, ma non è certamente una cosa o materiale biologico privo di valore morale. […] Questo valore – prosegue – è commisurabile con altri valori? Può anch’esso, come tutto nella vita umana, essere posto in un equilibrio riflessivo con altri punti di vista? Sì, purché si tuteli la sua dignità. Tutelare la sua dignità significa non farne un puro oggetto» (C. Mancina, La laicità al tempo della bioetica, Bologna 2009, p. 94). Ora, ipotizziamo una circostanza tutt’altro che infrequente nella società odierna: una donna che rimane incinta in seguito a un rapporto sessuale occasionale. Un caso in cui il principio di autodeterminazione è attuato in pieno. Si può dire lo stesso per la tutela della «dignità» dell’embrione? Il suo «valore morale» ha trovato un sia pur minimo riconoscimento? Sembra assai arduo poter rispondere di sì. In casi come questo il concepito è trattato come una cosa di scarso valore materiale, figuriamoci morale.
Vincenzo Gubitosi