Diminuisce la popolazione, si riduce il numero delle famiglie con figli, aumenta il divario tra individui in età lavorativa e non. È questo, in sintesi, il cupo scenario italiano descritto la settimana scorsa dall’Istat nelle sue previsioni sul futuro demografico del Paese.
L’Istituto nazionale di statistica rileva che il numero di cittadini italiani, che al primo gennaio 2021 si attesta a 59,2 milioni, scenderà a 57,9 nel 2030, a 54,2 nel 2050 fino a 47,7 milioni nel 2070. Dunque in meno di cinquant’anni l’Italia perderà la bellezza di 11,5 milioni di abitanti, oltre il 18 per cento. L’aspetto oltremodo preoccupante è che l’emorragia di persone riguarderà principalmente quelle in età lavorativa. Infatti - si legge ancora nel documento dell’Istat - il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e over 65 anni) passerà da circa tre a due nel 2021 a circa uno a uno nel 2050. Questo rapporto di parità costituisce una grave minaccia al welfare e al sistema previdenziale. Insomma, guai seri per i pensionati.
Altro dato scoraggiante è la decrescita del numero di famiglie prolifiche: entro il 2041 aumenteranno sì le coppie, ma diminuiranno quelle con figli. Ecco allora che solo una famiglia su quattro avrà figli, mentre più di una su cinque non ne avrà. Se oggi rappresentano una minoranza le famiglie numerose, tra vent’anni la minoranza saranno addirittura le coppie che hanno dei figli, non importa quanti.
Bastano questi elementi per pungolare la più malinconica immaginazione: il simbolo della popolazione italiana del futuro è un anziano, povero e solitario, che abita in un alienante appartamento di qualche periferia metropolitana. Un altro preminente aspetto dello studio dell’Istat, d’altronde, riguarda lo spopolamento dei piccoli centri, cuori pulsanti della nostra civiltà: nel breve termine, entro cioè dieci anni, quattro Comuni su cinque subiranno un calo di popolazione, che diventano nove su dieci se si prendono in considerazioni le sole zone rurali. I meravigliosi borghi d’Italia sono quindi destinati a diventare ammassi di ruderi avvolti dalla gramigna oppure dei siti turistici disabitati.
Ce ne sarebbe abbastanza per suscitare allarme. Nel dibattito politico e mediatico, tuttavia, il tema non ha attecchito. La pubblicazione dell’Istat risale a giovedì 22 settembre, tre giorni esatti dalle elezioni politiche; eppure, è stata sommersa dal disquisire su questioni francamente sterili come l’immaginario pericolo fascista. L’unico quotidiano che il giorno seguente vi ha dedicato l’apertura è stato Leggo con l’efficace titolo «Senza culle il Paese scompare». Impossibile obiettare: non c’è futuro all’orizzonte del lungo inverno demografico italiano.
L’auspicio, allora, è che il prossimo governo abbia chiara la priorità d’azione. Se si tratterà, come probabile, di un esecutivo di Centrodestra a guida Fratelli d’Italia, sarà importante attuare il punto numero 1 del programma del partito di Giorgia Meloni: «Sostegno alla natalità e alla famiglia». Trovare le coperture economiche rappresenta una sfida, specie considerando la complessità dello scenario geopolitico attuale. Ma è una sfida altrettanto ambiziosa e necessaria rovesciare, con i mezzi a disposizione, un paradigma culturale egemone che da anni degrada l’istituto familiare e il senso d’appartenenza comunitario a beneficio di identità fluide. Sono sfide che non possono essere eluse. Perché non fare figli, come spiegano in modo eloquente i dati Istat e come ricorda Papa Francesco, «è contro la patria».