La stagnazione della demografia è alla base della crisi economica in cui siamo immersi e le prospettive per i prossimi decenni non sono rosee. A dirlo è la Banca d’Italia in un Occasional Paper dal titolo Questioni di Economia e Finanza – Il contributo della demografia alla crescita economica: duecento anni di “storia” italiana, a cura di Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gomellini e Paolo Piselli.
La demografia, dunque, non è un fattore secondario, sul quale non è utile e necessario investire. Potremmo dire che lo andiamo ripetendo da anni, ma non è questo il punto importante, quanto il fatto che anche gli alti vertici della finanza si stanno accorgendo di questa ovvietà e stanno cominciando a interrogarsi secondo una prospettiva ad ampio raggio.
Si legge nel Paper: «Il contributo alla crescita economica della modifica nella composizione per età della popolazione può essere significativo. [...] L’Italia è tra i paesi sviluppati che si trovano oggi a fronteggiare uno scenario demografico il cui impatto sulla crescita del prodotto pro capite nei prossimi decenni sarà negativo». Un discorso completamente diverso rispetto a quei Paesi che in questi anni hanno avuto particolare attenzione per la salute della demografia interna e che, nel prossimo periodo, alla luce della crescita della popolazione giovanile potranno «raccogliere un dividendo dall’evoluzione demografica attraverso l’aumento dell’offerta di lavoro per quantità e qualità».
Ad ogni modo, per quanto questa possa consolare, le sorti della demografia in Italia sono le medesime degli altri Paesi industrializzati – prosegue nell’analisi Banca d’Italia – e i flussi migratori previsti non saranno comunque sufficienti per colmare il gap derivato dall’assenza di nuova forza lavoro che possa andare a sanare la fuoriuscita delle persone giunte al termine della loro vita lavorativa.
Alla luce di questo, «se è evidente come la variabile cruciale per la crescita economica resta la produttività, alcune modifiche – potenzialmente indotte dagli stessi sviluppi demografici o da azioni di policy – potranno generare effetti compensativi positivi (second demographic dividend). In particolare, l’allungamento della vita lavorativa, l’aumento della partecipazione femminile e l’innalzamento dei livelli di istruzione potrebbero avere un impatto positivo rilevante sulla crescita del reddito pro capite nel lungo periodo, compensando gli effetti negativi delle evoluzioni attese nella quota di popolazione in età da lavoro».
Chiaro, no? Per colmare la lacuna derivata dal “profondo rosso” in cui versa la demografia italiana è necessario aumentare l’età lavorativa, aumentare l’occupazione femminile e pretendere un livello di istruzione sempre più alto. È il gatto che si morde la coda, dunque: più le donne studiano e lavorano, più tardi arrivano alla maternità e meno figli fanno; inoltre, più si è costretti a lavorare, meno si è disponibili a supportare i propri figli nella gestione dei nipoti e meno si è presenti nella società con attività utili...
Perché non cambiare invece i paradigmi su cui si fonda la società attuale, provando a tornare a guardare al fatto che abbiamo una identità sessuata – siamo uomini e donne – che si concretizza in una vocazione specifica? Gli uomini tornino a fare gli uomini, che si muovo nel mondo per procurare il sostentamento alla famiglia, mentre le donne abbiano la possibilità (non dev’essere un obbligo, naturalmente) di dedicarsi alla famiglia e alla cura dei figli. Un’economia familiare che possa fondarsi su un solo stipendio, ovviamente aumentato in maniera congrua per non diminuire il potere d’acquisto, è così impensabile? Quante donne vorrebbero stare a casa fin tanto che i figli sono piccoli, senza dover tornare al lavoro con l’angoscia di aver lasciato un bimbetto di appena cinque mesi? Il che non nega la possibilità che le donne possano lavorare, non nega il fatto che il contributo femminile sia di fondamentale importanza, non nega la possibilità di rientrare al lavoro nel momento in cui figli sono più grandi e autonomi... significa semplicemente cambiare prospettiva: il fine per le donne in età fertile non può essere quello di lavorare per arrivare a fine mese, ma quello di lavorare per scelta, se questo si accorda alla propria pianificazione familiare. Associato a questo, è altrettanto importante fare cultura: la maternità non è una condanna, come non è un’opzione di cui godere quando meglio si ritiene (salvo poi accorgersi che l’orologio biologico ha fatto il suo tempo)... avere dei figli, rendersi partecipi della creazione è una missione alta e nobile per sé, per i propri bambini e per l’intera società e non è di certo paragonabile a qualsivoglia posizione lavorativa. E così anche lo stato della demografia italiana ne trarrà beneficio.
Redazione