Quello delle culle vuote, della stagnazione della demografia, è un problema drammatico dell’Italia di oggi, forse il problema.
Ogni anno una triste contabilità ci notifica un nuovo record negativo: 514.000 nati nel 2013, 502.000 nel 2014, 486.000 nel 2015, 474.000 nel 2016, 458.000 nel 2017.
È un trend che perdura dagli inizi degli anni ’70, quando i nati erano fra i 900 mila e il milione, ma che ha conosciuto una nuova accelerazione negli ultimi dieci anni. Si è passati, infatti, da 576 mila nati del 2008 a 458 mila del 2017, per una diminuzione percentuale superiore al 20 per cento.
Il dato congiunturale della crisi della demografia è da mettere in relazione con la crisi economica. Evidenziamo, in particolare, l’elevato indice della disoccupazione giovanile (fra i 15 e i 24 anni), rimasto per anni al di sopra del 40%, e quello dell’emigrazione giovanile. In tale ultimo caso abbiamo non solo un’emorragia di talenti (sono spesso i giovani più preparati che se ne vanno), ma anche una sottrazione significativa al patrimonio demografico nella fascia di età potenzialmente più prolifica (fra i 15 e i 34 anni).
Sono oltre 100 mila i giovani espatriati nel 2016, prevalentemente verso i paesi del Nord Europa, Germania e Gran Bretagna in primis. Notevole è anche l’emigrazione interna, specie dalle regioni del Sud verso il Nord. Negli anni della recessione più dura (quelli che vanno dal 2008 al 2015) il saldo migratorio netto del Mezzogiorno è stato di 653 mila unità, di cui 478 mila giovani. Ciò depriva il Sud di risorse demografiche importanti e ne mortifica i tassi di natalità, talché si è passati da 200 mila nati nel 2008 a 163 mila nel 2017.
Demografia congelata: le cause
La natalità è da mettere in relazione a due fattori fondamentali:
- il tasso medio di figli per donna,
- il numero percentuale di donne in età riproduttiva sul totale della popolazione.
In Italia il tasso medio di figli per donnasi mantiene persistentemente e consistentemente al di sotto di 2, soglia che assicurerebbe il ricambio generazionale. Negli ultimi dieci anni si è accentuato il trend negativo, passando da 1,46 figli per donna a 1,34. Ma se scorporiamo il dato relativo alle sole italiane, escludendo le straniere, il dato scende a 1,27.
Oltre la scarsa propensione alla procreazione incidono sul basso tasso di natalità il forte calo dei matrimoni (50 mila matrimoni in meno dal 2008 al 2016) e la tendenza a dare alla luce il primo figlio in età avanzata. L’età media in cui si diventa madri per la prima (e spesso unica) volta è superiore ai 31 anni, a fronte di una media UE inferiore ai 29 anni. Sul perché si arrivi così tardi alla maternità incidono senz’altro fattori socio-economici specifici. Cosicché un’altra volta incrociamo gli effetti della crisi economica che induce i giovani a rinviare la formazione di una famiglia propria e a posticipare la decisione di avere un figlio.
Ma il problema non è solo la precarietà o la mancanza di lavoro. Una criticità forse ancora maggiore è data dalla strutturazione del lavoro.
Oggi in una famiglia è necessario che tutti e due lavorino, perché altrimenti non ci sono entrate sufficienti. Ma, una volta trovato il lavoro, questo difficilmente si concilia, per i suoi ritmi e le sue esigenze, con la funzione genitoriale. Il sovraccarico dei compiti domestici sulle donne è pesante. A loro, quasi in perfetta solitudine, sono rimesse la capacità e la scelta di conciliare maternità, cure familiari, lavoro domestico ed extradomestico. Pertanto, ci sono donne che rinunciano al lavoro per la maternità e donne che rinunciano alla maternità per il lavoro. Secondo dati CGIL relativi alle Marche del 2012 quasi una madre su quattro a distanza di due anni dalla nascita del figlio non ha più un lavoro.
Si aggiungono poi le difficoltà abitative, la carenza di servizi, il costo economico e sociale dei figli. Un capitolo particolare è costituito dagli asili-nido, che o sono insufficienti o presentano costi proibitivi per le giovani coppie.Sempre secondo dati CGIL-Marche relativi al 2012, il 22% delle mamme non ha un parente cui affidare il bambino, il 18% non ha ottenuto l’iscrizione al nido, l’8% si lamenta degli elevati costi dei servizi nido e baby sitter.
A livello più strutturale si registra una progressiva riduzione delle potenziali madri in valori assoluti e percentuali. Ciò è dovuto all’uscita dall’età riproduttiva delle generazioni (molto numerose) di donne nate negli anni ’60 e ’70 e all’ingresso in età feconda delle coorti meno numerosi delle donne nate negli anni ’80 e ’90. In tal caso, si determina una tendenza consolidata, in quanto anni di prolungata diminuzione di nascite (dalla metà degli anni ’70) determinano un generale invecchiamento della popolazione e, quindi, di popolazione feconda.
Anche se si avesse un aumento significativo delle nascite nei prossimi anni, bisognerebbe ancora fare i conti con questo fattore per un’intera generazione, e cioè fino a quando nuove coorti di donne più numerose farebbero il loro ingresso nell’età della fecondità.
Demografia: le resistenze ideologiche antinataliste
A fronte di queste persistenti difficoltà occorrerebbe una risposta forte, decisa, organica. La ripresa demografica dovrebbe, quindi, iniziare innanzitutto dalle famiglie italiane incentivate, sostenute ed accompagnate nella scelta di avere un figlio. Se c’è bisogno in prospettiva di chi ci paghi le pensioni, come ripete il Presidente INPS, Tito Boeri, non si vede perché non si possa agire in questa direzione, e cioè incrementando il numero di nati.
Ma in Italia c’è un clima sociale assolutamente sfavorevole alla maternità (ciò è comprovato dalla diminuzione di numero medio di figli per le donne straniere, che, una volta in Italia, impattano nelle stesse difficoltà delle italiane). Al richiamo teorico alla rilevanza e alla necessità di una promozione della famiglia si contrappone, nella prassi, la negazione di tale importanza, il cui segnale principale è quello che potremmo definire “l’inconsistenza” delle politiche familiari. Cosicché le risorse destinate alla famiglia sono residuali.
Resiste un’inveterata ed anacronistica tendenza a misconoscere la funzione sociale della famiglia e della maternità. Di natalità, poi, manco a parlarne.
Recentemente una pubblicità della Chicco, che incentivava a fare più figli, è stata sommersa di critiche e polemiche. Alcuni hanno criticato l’azienda per aver creato uno spot dai toni propagandistici stile ventennio, altri l’hanno accusata di incoraggiare i rapporti sessuali non protetti, altri ancora hanno rimbrottato che quella di diventare genitori deve essere una scelta consapevole.
«Radicatasi in quelle fonti culturali che formano le mentalità e il sentire comune, un’ideologia antinatalista esercita una vera e propria censura quando si toccano i temi della promozione della vita e contrasta a priori ogni iniziativa mirata. Spesso, anzi, coloro che dovrebbero promuoverla con atti concreti, condivide quella stessa ideologia che ha promosso e promuove la lotta contro la vita. Cosicché l’affermazione del valore della stabilità dei rapporti, e il richiamo al dovere della fecondità e della responsabilità educativa, pone loro delle domande che più o meno consapevolmente avevano scelto di censurare» (così scriveva Rubi Ronza nel suo blog qualche anno fa).
La famiglia, come acutamente osservava Emanuele Samek Lodovici nel suo Metamorfosi della gnosi (1979), è una forma di comunità molto particolare «in cui la funzione del comando è legata al servizio e non all’esercizio del potere». In quanto tale, osta ogni forma individuale ed individualistica, in cui il contrasto delle volontà individuali si traduce o in rapporto di interessi o in possibili conflitti di forze.
Ora, negli anni che ci dividono da quelle profetiche intuizioni, quell’individualismo libertario si è trasformato in un cancro che ha ammalato la nostra società, debilitandola dal di dentro, fin quasi ad ucciderla. Pertanto, appare più che mai urgente promuovere una nuova considerazione della famiglia come soggetto centrale delle politiche sociali, al fine di riconoscerne la specificità delle funzioni e di fornirle un sostegno indiretto, capace di creare un “ambiente” favorevole economicamente, socialmente e culturalmente.
Occorrono, in particolare, politiche della casa, che aiutino le giovani coppie a trovarne una, politiche fiscali che riconoscano il carico dei figli, politiche dei servizi, che facciano del lavoro non qualcosa che schiaccia la famiglia (e la persona), ma una risorsa che permette di mettere su famiglia.
Clemente Sparaco