27/04/2022 di Luca Marcolivio

Dossier aborto. Noia: «Medicina basata sull’evidenza è il modo migliore per aiutare le donne»

Le parole chiave per stare dalla parte delle donne sono «conoscenza» e «consapevolezza». La scienza può aiutare davvero molto in questo percorso ma c’è sempre un aspetto puramente umano che non può mai essere trascurato, così come un’informazione scientifica corretta e rigorosa. Questo lo spirito del dossier “Aborto: dalla parte delle donne”, scrito da Lorenza Perfori e presentato oggi da Pro Vita & Famiglia in Senato. Giuseppe Noia, docente di Medicina dell’Età Prenatale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Direttore dell’Hospice Perinatale del Policlinico Gemelli e Presidente della Fondazione Il Cuore in una Goccia ETS è l’autore della prefazione. Per l’occasione, Pro Vita & Famiglia lo ha intervistato.

Professor Noia, qual è l’obiettivo del volume presentato oggi?

«L’obiettivo è innanzitutto quello di individuare il contributo che la scienza può dare alla procreazione umana ed informare che la medicina basata sull’evidenza è il modo migliore per aiutare le donne, per ridare alla scienza il suo ruolo e alle donne ciò che compete loro, cioè il diritto alla consapevolezza. L’informazione non può rimanere superficiale, dobbiamo farla diventare conoscenza, in modo che si inserisca in un iter di confronto e di studio, andando in profondità. Altrimenti rischiamo di mutilare le donne di questo diritto alla consapevolezza che può derivare soltanto da una informazione scientificamente corretta e rigorosa. Il grande vantaggio di questo libro è che vanta un corpo di documentazione di quasi mille studi e 170 voci bibliografiche. Con una capillarità di studio nel tempo di metanalisi che si estende nell’arco di 30-40 anni. Quindi, uno spessore di ordine scientifico enorme, per chi, con onestà intellettuale, lo voglia consultare. È su questi dati che bisogna creare il concetto del passaggio dall’informazione alla conoscenza. Sono questi dati che aiutano le donne ad essere consapevoli e libere di fare le proprie scelte».

Nella prefazione lei sottolinea molto l’importanza del legame tra madre e figlio…

«Assolutamente sì, nella prefazione, io riporto due metafore, andando a paragonare due esperienze. La prima è quella di una donna che, a 64 anni, ancora non elaborava la perdita della figlia, avvenuta quattro anni prima, all’età di 42 anni. Nel sentire comune, è inaccettabile l’idea che una madre debba sopportare il dolore di sopravvivere a un figlio. Di seguito, riporto di una donna che mi aveva contattato per la malformazione del bambino che aspettava. Si trattava di una gastroschisi, una patologia curabile con intervento poco dopo la nascita. Io stesso le ho raccontato di una bambina che avevo fatto nascere svariati anni prima, anche lei con gastroschisi: la feci operare e l’intervento andò bene. Da adulta, lei stessa ha messo al mondo un bimbo perfettamente sano. Nonostante le prospettive di curabilità che le avevo esposto, la prima paziente di cui parlavo, ha voluto interrompere la gravidanza. La sopravvivenza di una donna ai propri figli assume la connotazione di un vissuto personale in base a quello che la cultura di oggi induce a non vedere e a silenziare. Più di 400 donne, che ho seguito per aborti ripetuti, mi dicono che hanno “perso un bambino”, anche quando l’embrione era di pochi millimetri. Eppure, c’è chi mi ha detto: “io sto male come se avessi perso un figlio di 170 cm e 70 kg”. La sofferenza delle donne, quindi, non è affatto proporzionale ai centimetri o ai grammi del figlio. Tutto questo, lo certificano anche le donne che, dopo essersi sottoposte a fecondazione assistita, avevano i loro embrioni custoditi nei congelatori del San Filippo Neri. Quando poi è avvenuto un problema tecnico, loro hanno gridato: “abbiamo perso i nostri figli”. Quei bambini nemmeno li avevano visti, erano infinitamente piccoli. Però, il legame era fortissimo. Sia che si tratti di un bambino congelato con tecniche di fecondazione artificiale, sia che si tratti di un bambino di pochi millimetri, che va incontro a un aborto spontaneo, loro hanno perso un figlio. Queste sono le voci delle donne, non sono certo le voci della scienza. Molte volte, la scienza si limita a dire: tanto non si vede, è piccolo, riprovaci. Invece no, ci deve essere un processo di elaborazione di quella perdita, per poi aprirsi di nuovo alla vita. Esiste quindi un diverso modo di percepire la perdita del figlio che è indipendente dalle dimensioni, perché non è legato ai centimetri o ai grammi ma è legato alla perdita della presenza del proprio figlio. C’è un’equiparazione, in termini di vissuto e di presenza, tra embrioni piccolissimi, visibili solo a ecografia, e un figlio adulto e visibilissimo».

In realtà la stragrande maggioranza delle donne che hanno abortito non si danno pace per quella scelta, in molti casi pentendosene pure. Come aiutarle?

«Giovanni Paolo II lo aveva spiegato molto bene: una volta che abbiamo stigmatizzato l’errore, non puntiamo il dito sull’errante. Tutti i Papi lo hanno detto. Una volta che il male è stato fatto, l’errante va aiutato a uscire dalla desolazione. Ci sono professionisti e psicoterapeuti con grande esperienza in questo ambito. La loro esperienza sul campo dice che queste donne vogliono impegnarsi a far sì che altre donne evitino ciò che loro hanno vissuto. Quindi, c’è un desiderio di riscatto personale per impedire quel dolore ad altre. Alcuni sacerdoti hanno parlato di donne che avevano abortito addirittura settant’anni prima e ancora lo ricordavano con sgomento. Anche chi non è credente, ovviamente sta male, perché la perdita di un figlio scelta in modo consapevole è la lacerazione di un rapporto madre-bambino che la natura implica in maniera incredibile. Un legame così forte che la perdita di un figlio, spontanea o no, è sempre un trauma per le donne. Viene lacerata la costruzione di un progetto relazionale che rende e dà gioia a tutte le donne che vogliono un figlio. Quando questo avviene, le aiutiamo con delle metodiche che consistono, ad esempio, con il dare un nome al figlio che hanno perso. Questa riconciliazione, tuttavia, non può avvenire da sola ma soltanto con l’aiuto di psicoterapeuti che, man mano, aiutano le donne a rientrare in questa relazione che avevano rifiutato: in questo modo, spesso avviene la loro riapertura alla vita».

 

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