Dopo le prime tre, ecco la quarta parte dello studio che Giacomo Rocchi, del Comitato Verità e Vita, ha fatto della legge sull’eutanasia approvata dalla Camera.
4. L’adozione integrale del principio del consenso informato.
4.1. Introduzione
Si è accennato alla vicenda di Piergiorgio Welby; si deve ricordare che, benché il Consiglio Superiore di Sanità avesse stabilito che nei suoi confronti non era in corso nessun accanimento, che egli non era in stato terminale (cioè prossimo ad una morte imminente e inevitabile) e che i trattamenti non erano sproporzionati, Welby riuscì a farsi uccidere sulla base del diverso principio del consenso informato; Mario Riccio fu infatti prosciolto dall’accusa di omicidio del consenziente perché il Giudice ritenne che il paziente aveva validamente revocato il consenso alle terapie, con la conseguenza che il medico “curante” era obbligato ad interromperle, anche se ciò ne avrebbe provocato la morte.
La proposta di legge adotta interamente questa visione: a parte i casi di urgenza e di accanimento terapeutico di pazienti terminali (di cui abbiamo già trattato), i trattamenti sanitari sono vietati o permessi a seconda che il paziente – o il suo legale rappresentante – abbia espresso il consenso o l’abbia negato o revocato.
Ma, se l’obiettivo di questa proposta di legge è permettere l’uccisione delle categorie di soggetti deboli individuate dai fautori dell’eutanasia, senza o contro il loro consenso, le norme sul consenso informato dei soggetti maggiorenni e capaci di intendere e di volere, dal punto di vista strettamente operativo, così come quelle sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento, sono chiaramente secondarie! Sono scritte, appunto, per i casi Welby o per ingannare coloro che si illudono che il testamento biologico permetterà loro di “morire con dignità”, ignari che le esperienze in tutto il mondo dimostrano che le volontà scritte in quelle disposizioni li fanno etichettare come “do not resuscitate” e considerare dai medici una categoria da lasciare al loro destino².
Tuttavia, le norme sono attuazione dell’ideologia della disponibilità della vita umana, permettendo alle persone di disporre la propria morte in ragione delle proprie condizioni di salute o di “qualità della vita”: ideologia che, inevitabilmente, porta alla pretesa di pesare il valore o la qualità della vita delle altre persone e di decidere se e come eliminarle (attuata, come si è visto, con le norme sui minori e gli incapaci).
4.2. L’articolo 1 della legge. Un consenso informato?
In base all’art. 1, comma 1 del progetto di legge, “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero ed informato della persona interessata”.
In realtà, la legge favorisce scelte non consapevoli: il comma 3 dell’articolo 1 permette al paziente di “rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni (sulle proprie condizioni di salute) ovvero indicare i familiari o una persona di fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole”.
Come si vede chiaramente, la proposta (che su questo punto è stata modificata) costruisce uno scivolo per facilitare – ancora una volta! – decisioni sulla salute e sulla vita del paziente adottate da terze persone. Il motivo mi pare evidente: le persone che decidono in piena consapevolezza di morire sono poche; la maggior parte di noi – per fortuna! – non sarebbe in grado, anche se nella sofferenza, di dire: “ora uccidetemi”: quindi occorre favorire una decisione altrui oppure, con le DAT, una decisione inconsapevole per il futuro, senza avere davanti a sé l’evento della morte imminente.
Comunque: possiamo davvero escludere che un paziente ignaro si troverà ad avere firmato una
dichiarazione con cui aveva delegato altri a ricevere informazioni sulla sua salute e a decidere per lui?
La legge facilita le decisioni di persone non consapevoli.
Una piccola modifica operata dall’Assemblea conferma questa affermazione.
Inizialmente l’art. 1, comma 5, prevedeva che “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere ha il diritto di rifiutare ecc.”.
Il testo approvato dalla Camera prevede, invece, che “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare ecc.”. Capace di agire è il maggiorenne (art. 2 codice civile).
In sostanza, la modifica ha eliminato il tema della “capacità di intendere e di volere” che, ovviamente, può mancare anche al maggiorenne anche se non interdetto (come prevede l’art. 428 codice civile, che stabilisce l’annullabilità degli atti compiuti da chi era incapace di intendere e di volere al momento in cui sono stati compiuti).
In definitiva, qualunque sia stata la condizione psicologica in cui si trovava la persona maggiorenne che aveva rifiutato terapie salvavita, la manifestazione del rifiuto è valida. Eppure, il turbamento derivante dalla malattia, dalla paura, dalla sofferenza può essere fortissimo e può certamente condurre a scelte inconsapevoli.
Tutto questo diventerà irrilevante: una scelta “burocratica” (conta solo l’interdizione o l’amministrazione di sostegno) che tutelerà i medici disposti ad uccidere, ma non certo i pazienti.
Sempre restando al tema della documentazione del rifiuto di terapie salvavita, emerge un problema che il legislatore si guarda bene dal risolvere: dopo avere previsto il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza, l’art. 1 comma 5 prevede: “Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.
Come viene registrata la modifica della volontà? Quando il paziente che sta morendo perché non curato in conseguenza del rifiuto, cambia idea e vuole essere salvato e curato, come farà a far valere la nuova volontà?
4.3. Un consenso libero?
Ma quando il consenso è libero? E come accertare questa libertà?
La legge non lo specifica affatto e nemmeno chiarisce se e in che modo il medico che “ha l’obbligo di rispettare la volontà del paziente” possa accertarlo. Non sarà possibile nemmeno indagare su tale libertà successivamente sulla base della documentazione scritta o filmata.
La possibilità di abusi è evidente: se il medico che rispetta la volontà del paziente “è esente da responsabilità civile e penale” (art. 1 comma 6), ciò che lo metterà al riparo da ogni preoccupazione sarà il foglio scritto firmato dal paziente: in che modo si è giunti alla firma del
documento resterà ignoto.
Del resto: sarà davvero libero nel rifiutare le terapie l’anziano lasciato solo dai suoi parenti in una casa di riposo od in ospedale o che si sente “di peso” ai familiari?
Rendiamoci conto – sarà bene: prima o poi tutti ci passeremo! – che la comparsa all’orizzonte della possibilità di rifiutare terapie salvavita o comunque importanti e magari costose mette di per sé l’anziano o il malato cronico o grave in una situazione psicologica pesante: tutte le volte che sarà chiamato a nuove scelte terapeutiche non dovrà più soltanto chiedersi – con l’aiuto del medico – se si tratta di terapie necessarie ed utili, ma dovrà risolvere il quesito se vale la pena continuare a vivere e a lottare contro la malattia o l’età avanzata, interrogandosi se gli altri (i parenti, la società) ritengono la sua permanenza in vita utile o inutilmente costosa o gravosa.
Proprio quando la scienza medica ha trovato e trova rimedi e medicine nuove che curano patologie una volta incurabili, la società (e la stessa medicina) si ferma e si chiede se ne vale la pena, gravando il paziente di questa domanda!
Non si tratta – si badi bene – di domanda che viene posta ai malati ormai inguaribili e prossimi alla morte, per i quali è legittimo chiedersi – ad esempio – se un ennesimo ciclo di chemioterapia che prolungherà la vita di qualche mese sia davvero opportuno; è una domanda che viene posta a tutti i pazienti anche se non terminali e che potrebbe ricevere una risposta negativa dettata da una costrizione morale.
4.4. L’operatività del principio del consenso informato.
Cosa permette questa regolamentazione?
Così come avvenne con il caso Welby, quando il paziente chiederà l’interruzione delle terapie – quindi anche della respirazione artificiale – il macchinario dovrà essere spento o staccato e il paziente morirà.
Allo stesso modo potrà essere rifiutata o interrotta ogni terapia, anche salvavita.
La previsione che il consenso possa essere revocato (e non soltanto rifiutato prima che la terapia sia intrapresa) muta decisamente la situazione. Già oggi ognuno di noi, se è maggiorenne ed è adeguatamente informato, può rifiutare una terapia che il medico ritiene necessaria e il medico (salvo i casi di trattamenti sanitari obbligatori) non può costringermi ad assumerla e si deve astenere (si pensi, ad esempio, ad un’operazione chirurgica).
La possibilità per il paziente di revocare una terapia già in atto fa sorgere l’obbligo di interromperla e, quindi, crea – nella maggior parte delle situazioni – la nascita di un obbligo giuridico di fare (cioè di uccidere) che grava sul medico.
Premurosamente, la legge prevede (art. 2, comma 1) che “il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38”: quindi ti uccido (o ti lascio morire), però non ti faccio soffrire. Si tratta esattamente della prassi utilizzata da Mario Riccio nei confronti di Welby (staccò il respiratore artificiale e somministrò i medicinali opportuni perché morisse soffocando senza soffrire) e che venne prescritta dalla Corte d’appello di Milano nell’autorizzare la morte di Eluana Englaro per fame e per sete (i sanitari avrebbero dovuto usare la migliore scienza per eliminare il disagio: dovevano umidificare le mucose ma non darle da bere …).
Uno stravolgimento del senso della medicina del dolore e delle cure palliative, che diventano “serve” della decisione eutanasica.
Giacomo Rocchi
(continua)
²Per chi volesse approfondire questo tema, è magistrale lo scritto di Renzo Puccetti, Maria Cristina Del Poggetto, Vincenzo Costigliola, Maria Luisa Di Pietro: “Dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT): revisione della letteratura”, su Medicina e Morale, n. 3, Anno 2009.
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