Dopo l’approvazione del ddl cosiddetto “Buona scuola” al Senato si sono moltiplicati, sui giornali e sui siti, articoli che riportano dichiarazioni di politici preoccupati, di ministri che rassicurano, di intellettuali che disquisiscono ... c’è il gender oppure no nella Buona scuola?
Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini cerca di tranquillizzare tutti: nessun rischio di promuovere il gender attraverso il disegno di legge in questione. Altri non sono così convinti: la Lega Nord teme che la teoria di genere passi con il pretesto del contrasto al bullismo.
Su “Tecnica della scuola“, Mario Pittoni, responsabile federale Istruzione del “Carroccio”, afferma che “Il rischio della promozione dell”indifferentismo sessuale’ nelle aule scolastiche con il varo del ddl Buona scuola, esiste. E’ contenuto nel possibile utilizzo improprio della terminologia ambigua presente al comma 16 della riforma (una delle tante forzature del testo voluto da Renzi), relativo alle attività formative sull’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”.
“Avvenire” riportava qualche giorno fa in un articolo le dichiarazioni di Toni Brandi, presidente di ProVita, che esprime la nostra posizione: “Così il Senato vorrebbe introdurre l’assurda teoria di genere nel sistema scolastico. Infatti il maximemendamento rinvia alla legge 119 del 2013, che a sua volta si ispira a questa pericolosa teoria (...) e questo è totalmente contrario a quello che il popolo italiano ha chiaramente espresso nella manifestazione straordinaria del 20 giugno. Se la nostra voce non verrà ascoltata, promuoveremo un referendum abrogativo della ‘Buona Scuola’”. Referendum poi minacciato anche dal presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
Altri ancora, tra i quali alcuni del NCD, vedono qualche “rischio” e “ambiguità” ma ritengono esagerato dire che il ddl Buona scuola introduca (o meglio, a questo punto: confermi l’introduzione e promuova) la teoria gender nelle scuole. Eugenia Roccella spiega: “Il mio gruppo aveva preparato quattro emendamenti ma non è stato possibile discuterli perché il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha stabilito che il maxiemendamento non era emendabile (...) noi volevamo riformulare il testo, per evitare ogni ambiguità: oggi tutto viene strumentalizzato. Ma è esagerato sostenere che questa norma introduca il gender nelle scuole, anche perché ahimè si è già introdotto”. E aggiunge: “Non scordiamo che l’emendamento al ddl sulla scuola che tanto ci allarma è stato firmato da Pd e Forza Italia insieme. La sola cosa che abbiamo potuto fare è stato dare la fiducia ma esigere un impegno preciso, chiedendo anche che la circolare del ministro arrivi prima che il 7 luglio la riforma sulla scuola torni alla Camera”.
D’altra parte però, il fatto che i senatori di area popolare abbiano votato la fiducia ha provocato un diffuso malcontento tra le associazioni e tra molti di quelli che il 20 giugno erano in piazza ... magari a fianco di quegli stessi senatori.
Riprendiamo quindi il ddl e vediamo se e in quale misura il gender viene introdotto. Procederemo con ordine: incominciando dai punti meno problematici per arrivare a quelli più problematici.
Leggiamo il famoso comma 16 del ddl Buona scuola:
Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all’articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013.
Facciamo le seguenti osservazioni:
– il testo ora si riferisce all’educazione alla “parità dei sessi” mentre in una versione precedente la “parità” riguardava il “genere”. Da questo punto di vista il problema potrebbe considerarsi risolto ... a parere di chi scrive, non del tutto: benché “l’educazione alla parità tra i sessi” sia sicuramente cosa condivisibile se ci si riferisce alla pari “dignità”, il concetto stesso di parità dei sessi è diventato ambiguo in un contesto scolastico in cui diversi progetti già si ispirano alla teoria di genere, spesso proprio con il pretesto di educare alla “parità tra i sessi”. Infatti anche la teoria di genere vuole parificare i sessi: in modo però talmente ossessivo da cancellare la rilevanza e le specificità di ogni sesso biologico dal punto di vista psicologico, morale e sociale. Tuttavia questo punto, come premesso, costituisce il minore dei problemi ...
– si parla di “prevenzione della violenza di genere”: più di uno ha rimarcato che l’espressione è perlomeno ambigua. Soprattutto ora che subito prima si parla di “sessi”, il “genere” sembrerebbe essere qualcosa di diverso, e quindi la “violenza di genere” qualcosa di distinto dalla violenza fondata sul sesso della vittima. Si potrebbe pensare che in fin dei conti il riferimento alla “violenza” restringe di molto il campo delle possibili iniziative adottabili in questo senso. Temiamo di no: per “violenza” molti intendono anche quella psicologica e verbale, e l’attività di “prevenzione” (anche della sola violenza fisica) può in realtà richiamare progetti educativi che investono tutti gli aspetti della personalità, della società e della cultura. L’ambiguità quindi, anche in questo punto, rimane.
– discorso simile vale per “la prevenzione ... di tutte le discriminazioni”. Forse non c’è parola più abusata e strumentalizzata che la parola “discriminazione”, specie nei progetti scolastici. I nostri lettori sanno bene che praticamente tutti i progetti che si ispirano al gender pretendono di lottare contro qualche tipo di discriminazione: quella omofobica, quella sessista, quella basata sull’identità di genere, ecc. L’espressione “tutte le discriminazioni” andrebbe precisata e limitata nella sua portata concettuale in quanto, benché astrattamente condivisibile (la “discriminazione” è una differenza “irragionevole” che quindi da luogo a trattamenti “ingiusti”), sia nell’uso comune che in quello istituzionale essa rimanda a fenomeni perlomeno controversi.
– più grave (e questo alcuni ostinano a non voler considerare) è il riferimento alla legge n. 119 del 2013. All’art. 5 di questa legge si prevede l’adozione di un “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, le cui finalità, elencate al comma 2 del medesimo articolo, comprendono, tra le tante cose: “promuovere un’adeguata formazione del personale della scuola alla relazione e contro la violenza e la discriminazione di genere”, “prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere”. A giudicare dal contesto si potrebbe essere indotti a credere che il “Piano d’azione” riguardi soltanto il fenomeno della violenza contro le donne, ma il termine “genere” accostato a “discriminazione”, e distinto da “donne”, fa venire il dubbio che dietro ci sia qualcosa di più. Il dubbio si rafforza, di molto, leggendo il testo del “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, in particolare al paragrafo 5.2 sull’educazione:
“Obiettivo primario deve essere quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze, in particolare superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini, ragazzi e ragazze, bambine e bambini nel rispetto dell’identità di genere (...) dell’orientamento sessuale (...), sia attraverso la formazione del personale della scuola e dei docenti, sia mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa”.
Ora si parla chiaramente. I lettori che hanno un minimo di dimestichezza con i progetti scolastici ispirati alla teoria gender riconosceranno certe espressioni inequivocabili: il superamento degli stereotipi che riguardano il ruolo sociale e il significato dell’essere donne e uomini “nel rispetto dell’identità di genere” e “dell’orientamento sessuale”, e “l’inserimento di un approccio di genere”. Le espressioni sono tipiche, soprattutto quando al superamento degli stereotipi di associa il criterio della “identità di genere”. Infatti l'”identità di genere” è un concetto ben definito: in tutti i documenti amministrativi (ad esempio quelli dell’UNAR), i disegni di legge, e persino nelle raccomandazioni di organismi internazionali (si veda “Le discriminazioni contro le persone transgender in Europa”, approvato lo scorso 22 aprile dal Consiglio d’Europa) nei quali è richiamata, la definizione è pressapoco la seguente: la percezione di appartenere al genere uomo, donna, o (talvolta) a un genere indeterminato, anche indipendentemente dal proprio sesso biologico.
Il richiamo al rispetto dell’identità di genere (e non della persona, anche transgender, che è cosa diversa) in riferimento all’essere uomo o donna e al superamento degli stereotipi significa adottare un approccio (gender, appunto) per il quale l’auto-percezione soggettiva ha più importanza del sesso biologico nella caratterizzazione dell’essere di una persona, e nella sua dimensione psicologica e sociale. La promozione o la normalizzazione del transessualismo e/o del transgenderismo è la conseguenza logica e immediata.
La presenza del gender nel disegno di legge è in qualche modo nascosta e indiretta, in quanto appare chiaramente solo grazie a un doppio rinvio: prima alla legge 119 del 2013, poi di conseguenza al “Piano d’azione”.
Ma la teoria gender nel ddl Buona scuola c’è, questo è il problema.
Alessandro Fiore