Questa mattina 500.000 giovani inizieranno l’esame di maturità, probabilmente dopo aver passato una notte pressoché insonne, complici i ripassi dell’ultimo minuto e l’agitazione.
La #Maturità2018 ripropone sotto nuova veste la nota denominazione “i ragazzi del ’99”, che nel gergo comune identifica i diciottenni che furono inviati al fronte nell’autunno del 1917, dopo la disfatta di Caporetto. E, seppur sia certamente vero che l’implicazione di un esame di Stato è ben differente dalla discesa in guerra, è altresì chiaro che sia i giovani di allora, sia quelli di oggi si trovano di fronte a un passaggio di vita.
L’esame di maturità, come voleva indicare il nome stesso – oggi si chiama “esame di Stato” – , è forse una delle prime azioni che i giovani di oggi si trovano ad affrontare in autonomia, mettendo alla prova le proprie capacità. Capacità, e non tanto conoscenze, perché sulle modalità con cui si svolgono le prove e sui contenuti si potrebbe discutere a lungo. Tuttavia nelle tre prove scritte e nell’esame orale quello che conta non è tanto il fatto di dimostrare di avere una “testa ben piena”, quanto “una testa ben fatta”, come argomentava Edgar Morin nel suo celebre testo dal titolo ispirato a una frase di Michel de Montaigne. La mera accumulazione quantitativa di saperi, infatti, non è importante quanto l’attitudine a saper analizzare le questioni in maniera organica, facendo collegamenti e organizzando un ragionamento.
I giovani di oggi ne sono capaci? A livello potenziale, certamente sì. A livello pratico, l’impressione è che il contesto socio-educativo odierno non li favorisca nell’acquisire tali competenze. E questo lo vediamo fin dalla tenera età: quanti sono i genitori che, magari in occasione di un gita in una città d’arte, si sgolano nel dare ai propri figli regole puntuali, che questi (legittimamente) disattenderanno: «Non fare questo...», «Non fare quello...»? Perché rispettare un’imposizione della quale non mi è stato spiegato il senso? Occorre invece sempre fornire ai piccoli una cornice di riferimento, come può essere il dire: «Quando andiamo in città grandi cerca di non allontanarti mai da mamma e papà, perché c’è il rischio che ti perdiamo di vista». Questa affermazione sarà rispettata con molta più facilità dai bambini, perché ne colgono la portata.
Cosa si pretende, poi? Che quando, da bambini, saranno diventati ragazzi, sappiano gestirsi in autonomia, entro dei parametri di massima fissati dai genitori? Non funziona così: è allora ecco l’imposizione dell’ora di rientro a casa, la contrattazione per una paghetta fissa, e via discorrendo. Atteggiamenti, questi, che non favoriscono la maturità: in un’alleanza educativa che vede necessariamente i genitori in un ruolo superiore, non si potrebbe pensare a un rientro in orario flessibile, in base allo svolgersi della serata, o a una paghetta misurata sui reali bisogni e non su un parametro immutabile?
Ecco quindi che, per i giovani del ’99 come per tutti quelli prima e dopo di loro, la maturità si configura come un momento di prova, di passaggio all’età adulta: le regole sono di certo chiare, ma sta a loro starci dentro in maniera flessibile, piena, organizzata... e questo soprattutto nei giorni antecedenti all’esame, quando occorre pianificare lo studio, e nel momento stesso delle prove, quando di fronte a domande inedite occorre mettere a lavorare “la testa ben fatta”.
Buona maturità, dunque... ma soprattutto, buona vita!
Teresa Moro