Monica Ricci Sargentini, giornalista de Il Corriere della Sera, è da qualche giorno al centro di una polemica per aver scritto, a proposito dell’utero in affitto, su La27esimaOra un articolo dal titolo: “Dalla Francia all’Italia le femministe contro la maternità surrogata: «La madre non si cancella»”.
Mamma di tre figli – due maschi e una femmina – Sargentini, che si riconosce tra le fila delle femministe della differenza, è rea di aver pubblicato un resoconto sulla contrarietà di molte femministe all’utero in affitto, ad oggi vietato in Italia, che rende le donne schiave e mercifica i bambini.
Noi di Notizie ProVita ci teniamo a manifestarle pubblicamente la nostra solidarietà per gli attacchi e le accuse che sta ricevendo. E, per approfondire meglio il suo pensiero su questo specifico tema – che trova sempre più spesso una convergenza di opinioni anche da parte di chi su altre questioni si trova invece su fronti opposti (per esempio questa Redazione ritiene fermamente che i bambini abbiano bisogno di una mamma e un papà) -, l’abbiamo contattata e le abbiamo posto alcune domande.
Innanzitutto potrebbe riassumerci le motivazioni che l’hanno portata a scrivere contro la pratica dell’utero in affitto?
Il mio era solo un articolo di cronaca, non c’erano dentro le mie opinioni. Mi sembrava giusto registrare il fatto che molte femministe avessero deciso di uscire allo scoperto e denunciare gli abusi che si nascondono dietro questa pratica che riguarda, ci tengo a ricordarlo, soprattutto coppie eterosessuali. Ci tengo infatti a precisare che personalmente ritengo che persone con tendenze omosessuali possano essere buoni genitori e sono a favore di una legge che permetta loro di adottare.
Da femminista, qual è l’aspetto che valuta fondamentale nel denunciare questa pratica?
In alcuni Paesi, come l’India, le donne vengono messe in dei capannoni lontano dai loro villaggi e tenute come galline a fare la cova. Per fortuna ora Nuova Delhi si appresta a vietare la maternità surrogata. Ma anche in Paesi come il Canada e gli Stati Uniti, dove la pratica è ben regolata, non mi convince l’idea del dono, del gesto altruistico perché sotto c’è sempre uno scambio di tanto denaro. Pensare a un bambino che, appena nato, viene strappato alla madre mi fa stare male. Chiunque abbia partorito può capirmi.
Per l’articolo che ha scritto Le è stata annunciata una denuncia all’Unar. Veramente in Italia non si è più liberi di esprimere la propria opinione?
C’è sicuramente un clima di intolleranza che spesso porta anche all’autocensura. A volte si ha paura di dire quello che si pensa per non essere bollati come razzisti, omofobi, islamofobi e chi più ne ha più ne metta. Personalmente giudico pericolosa la dittatura del politically correct. Negli Usa ci sono persino andati di mezzo libri importanti. Le faccio un esempio: la scorsa settimana, alla manifestazione Not in my name, in piazza c’erano pochissimi musulmani, eppure molti giornali e agenzie di stampa hanno scritto il contrario. Perché?
Una delle questioni che le viene contestata è l’uso della terminologia “utero in affitto”. Eppure di questo stiamo parlando, è inutile usare altre parole per edulcorare – in maniera velata, ma reale – lo stato della questione.
Questo fatto della terminologia la dice lunga sul senso di colpa di chi difende questa pratica. E’ come se le parole non fossero mai adatte. Da “utero in affitto” si è passati a “maternità surrogata” per poi ripiegare su “gestazione per altri”. Ma le parole non cambiano la sostanza.
L’utero in affitto è un business che vede coinvolti single, coppie eterosessuali sterili, coppie omosessuali, ma anche donne fertili che ‘preferiscono’ non ‘rovinare’ il proprio corpo. Di questo passo dove si arriverà?
Trovo molto difficile comprendere le motivazioni delle donne fertili, privarsi di un’esperienza meravigliosa come la gravidanza è folle. La scienza arriverà a traguardi incredibili, magari un giorno inventeranno l’utero artificiale o i cloni come la pecora Dolly. Chiaro che sta a noi porre un limite.
Nel suo post Ida Dominijanni dice che stiamo andando verso una società indifferenziata in cui prevale il neutro. Lei è d’accordo?
Sì ed è molto preoccupante. Uomini e donne sono diversi, diversissimi. Noi femministe della differenza abbiamo sempre combattuto la declinazione al maschile del mondo rivendicando la nostra diversità e specificità. Uguaglianza non vuol dire rinunciare al proprio essere, appiattirci su un neutro che non esiste.
Teresa Moro