La nuova frontiera della commercializzazione degli esseri umani è l’utero in affitto, così come denunciato in particolare oggi con la nuova campagna choc contro questa pratica. Per 15 giorni numerosi camion vela, infatti, gireranno per le strade di Roma con l’immagine di bambini dentro alcuni barattoli, per contrastare la cultura che vuole i minori come degli oggetti. Di questo ha parlato il professor Paolo Becchi, filosofo del diritto e scrittore, intervistato da Pro Vita & Famiglia.
La nuova campagna ritrae un bambino in un barattolo, per dire no all’utero in affitto e alla commercializzazione dei bambini
«L’utero in affitto è una totale strumentalizzazione non soltanto del bambino, ma anche della donna che viene trattata come uno strumento, che viene usata, da un’altra donna, per portare avanti una gravidanza. C’è un uso strumentale della donna e poi ovviamente c’è il quesito, aberrante, di quale sarà la vera madre del bambino che nascerà. Ci sono infatti casi in cui la donna che lo porta in grembo poi si sente irreparabilmente attaccata al piccolo e il distacco diventa drammatico, anche se ha firmato un contratto. Per fortuna in Italia questa pratica è vietata ed è un bene che lo sia. Purtroppo si è trasformato il desiderio di avere un figlio in un diritto che deve essere a tutti i costi garantito a chiunque e a qualsiasi condizione. Inoltre si arriva a sbilanciare questo presunto diritto nei confronti dei diritti che dovrebbero avere le donne e gli stessi bambini».
Si parla sempre di più dell’utero in affitto, mentre fino a pochi anni fa era un argomento quasi sconosciuto. C’è una maggiore sensibilizzazione in Italia?
«Al di là del fatto che non c’è una legge in Italia che lo prevede, secondo me la battaglia contro l’utero in affitto nel nostro Paese incontra ancora il sentire popolare comune, ovvero della maggioranza delle persone che rifiuta tale pratica e non la vede di buon occhio. Per questo l’utero in affitto dovrebbe essere totalmente stigmatizzato. Secondo me il fatto che se ne parli molto è una cosa aperta perché, come detto, si sfonda una porta aperta poiché in Italia non c’è, fortunatamente, una grossa fetta di popolazione favorevole a tale pratica. L’utero in affitto è contro la nostra mentalità e infatti, a differenza di altri temi altrettanto delicati, è preso poco in considerazione e anzi è vietato in gran parte d’Europa. Questo perché è visto come quello che è, ovvero la commercializzazione dei bambini, ridotti a oggetto, e del corpo della donna. Non si può pensare, infatti, di “affittare” solo l’utero, ma si va ad “affittare” l’intera donna che si mette a disposizione per la gestazione di qualcun altro, ed è quindi tutta la donna che viene commercializzata. Si riduce la donna ad una macchina».
Nonostante la maggiore sensibilizzazione ci sono i rischi che possa arrivare in Italia l’utero in affitto?
«Credo che in Italia non si arriverà mai all’utero in affitto, anche se ovviamente può anche essere una risposta troppo forte e ottimista la mia. Però credo che per la sensibilità del popolo italiano sia inaccettabile arrivare a legalizzare una pratica del genere. Ovviamente c’è chi lo vorrebbe, ma si tratta di una piccolissima percentuale. La sensibilità italiana va comunque di pari passo con quella di altri Paesi europei, dove l’utero in affitto è attualmente ancora vietato».
Salvatore Tropea