Il 2014 appena concluso ha segnato il quarantesimo anniversario del referendum che, il 13 maggio 1974, ha visto la conferma popolare della legge n. 898 del ’70 che aveva introdotto il divorzio in Italia.
L’Italia si è così adeguata ai tempi e a quella cultura divorzista che, piuttosto che cercare un modello di società che sappia garantire in modo più avanzato l’alleanza naturale tra uomo e donna, ha costruito un sistema che mette i due sessi l’uno contro l’altro, esaltando le ragioni egoistiche di ciascuno: complice il femminismo radicale e le ideologie sottese alla
rivoluzione “culturale” e sessuale del ’68 …
La teoria del divorzio come male minore, nella maggior parte dei casi, rappresenta solo un falso pregiudizio per offrire un alibi alla coscienza di chi quel divorzio lo vuole. Però è proprio quel pregiudizio che attira milioni di persone e i loro figli nel tritacarne divorzista. Il più delle volte, senza che alcuno di essi riesca mai a incontrare, dall’inizio della crisi fino ai suoi esiti più rovinosi, qualcuno che sia in grado di offrire in modo credibile un’alternativa.
Per tutta risposta si parla di “divorzio breve” ed è stato approvato il “divorzio facile”. Continua l’opera diseducativa che induce a considerare sempre più facile e indolore un atto che dovrebbe essere grave ed estremo.
Il rimangiarsi la parola data ci rende più deboli e psicologicamente fragili. E’ “una conquista di civiltà”? Della “civiltà” liquida e relativista in cui l’uomo è destinato a scomparire.