Ancora propaganda dell’aborto da parte del Consiglio d’Europa, che ha accolto il ricorso della Cgil incentrato sulla difficoltà delle donne ad accedere a questo ‘servizio’ e per le discriminazioni di cui sarebbero vittime i sanitari non obiettori.
E soprattutto, ancora un attacco all’obiezione di coscienza che ha un sapore totalitario di imposizione dittatoriale e illiberale.
Il pronunciamento è stato appena reso noto e, purtroppo, conferma la linea pro-morte che l’organo di Strasburgo aveva già dimostrato di voler seguire nei mesi passati, per esempio affermando che l’aborto tardivo (infanticidio) non è una sua materia d’interesse, oppure che in Italia vi sono troppi medici obiettori.
L’Italia è stata dunque oggi nuovamente bacchettata per la (presunta) “notevole difficoltà“ delle donne ad accedere all’aborto nelle strutture pubbliche, fatto che – a detta del Consiglio d’Europa – sarebbe in contrasto con una piena applicazione della legge 194/78, denominata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza“. Inoltre, medici e personale ospedaliero che non hanno scelto l’obiezione sarebbero discriminati e sarebbero vittime – scrive il Consiglio d’Europa – “di diversi tipi svantaggi lavorativi, diretti e indiretti“.
Il pronunciamento europeo trova la soddisfazione del segretario generale della Cgil Susanna Camuso.
E’ stupita, invece, il Ministro per la Salute Beatrice Lorenzin, che ha affermato: “Mi riservo di approfondire con i miei uffici, ma sono molto stupita perché dalle prime cose che ho letto mi sembra si rifacciano a dati vecchi che risalgono al 2013. Il dato di oggi è diverso. Non c’è alcuna violazione del diritto alla salute“.
La legge 194 non viene applicata in maniera integrale dall’Italia, sostiene il Consiglio d’Europa? E’ vero, ma nel senso opposto rispetto a quello che gli inquilini del Palazzo di Strasburgo vorrebbero farci credere.
Si cominci a sostenere le donne affinché portino avanti la gravidanza, e il problema dell’aborto si scioglierà come neve al sole: nessuna donna infatti, se accompagnata nella maniera corretta, sceglierà di uccidere il suo bambino.
Rileva giustamente in un suo comunicato stampa Olimpia Tarzia che è l’obiezione di coscienza ad essere presa di mira dalla sentenza della CEDU: “E’ inquietante come nessun valore sia stato dato alle informazioni fornite a settembre scorso non da associazioni di obiettori bensì dal Ministro alla Salute che si è mosso proprio per contestare i numeri – totalmente errati, forniti dalla CGIL nel reclamo mosso innanzi al Consiglio d’Europa”.
Infatti, secondo i dati ministeriali, citati anche dalla Tarzia, l’aborto, si effettua nel 64 per cento delle strutture disponibili. Gli aborti sono pari al 20% delle nascite, i “punti Ivg” in Italia sono pari al 74 % dei “punti nascita”; inoltre, quanto al carico di lavoro dei medici abortisti, su 44 settimane lavorative annuali, in Italia ogni non obiettore effettua 1,4 aborti a settimana.
Il Ministro ha smentito le testimonianze di presunte azioni di mobbing esercitate in ospedali italiani nei confronti del personale non obiettore per le quali nessuna denuncia ufficiale risulta essere mai pervenuta.
“La decisione del Consiglio d’Europa è fondata su falsi presupposti e ad essere discriminati in Italia sono semmai gli obiettori che sempre più spesso si vedono negare l’accesso ai consultori monopolizzati dalle associazioni abortiste. Siamo quindi di fronte all’ennesima strumentalizzazione ideologica”, conclude la Tarzia.
Dal canto nostro, non possiamo che registrare con rammarico questa nuova sentenza della cultura della morte che, invece che incentivare le nascite, sostiene l’uccisione dei bambini nel grembo materno. Una sentenza omicida, dunque, ma anche ipocrita e che travisa la verità.
L’aborto è infatti un “genocidio censurato”, che – dall’introduzione della legge 194 in Italia nel ’78, fino al 2014 – ha già ‘legalmente’ mietuto circa 6 milioni di vittime (senza contare tutti i bimbi uccisi con le varie pillole del giorno dopo, dei cinque giorni dopo e con la Ru486), un numero di dodici volte superiore rispetto ai morti italiani della seconda Guerra Mondiale.
Di quale “diritto alla salute” si sta parlando? Di certo non di quello del bambino, che non viene nemmeno preso in considerazione: non ha parola, e quindi non ha diritto a vivere. E quando si parla di “gratuità” si dimentica che un aborto costa allo Stato italiano circa 1.100 euro, e i soldi che vengono pagati da ognuno di noi contribuenti.
Infine, perché quando si parla dell’iniqua legge 194 – che andrebbe abolita nella sua integrità – non ci si sofferma mai sull’articolo 5? In questo articolo si legge infatti: “Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto“. Veramente in Italia, nei consultori e nelle strutture socio-sanitarie, le donne sono aiutate e sostenute nella scelta di non abortire? Tante testimonianze lo smentiscono, e anzi rivelano la grande facilità con cui una donna riesce ad ottenere il certificato per abortire, neanche fosse una prescrizione per fare le analisi del sangue.
Redazione