La pandemia, ce lo ricordiamo bene, ha fermato molte cose in quasi tutto il mondo. Trasporti, attività, mobilità, lavoro, iniziative culturali, quasi tutti gli aspetti della vita ordinaria sono rimasti bloccati per lungo tempo. Una sola cosa sembra non essersi fermata nemmeno allora: gli aborti. Secondo l’americano Centers for Disease Control (CDC), tra il 2020 e il 2021 negli Stati Uniti il numero delle interruzioni di gravidanza è aumentato di circa il 5%. Ed è la terza volta in quattro anni che questo dato cresce. Di fronte a questi dati, potrebbe sorgere una domanda legittima: quanto è straordinaria la capacità di assorbimento del sistema sanitario americano rispetto a questa crescente domanda di morte? Si tratterebbe però di una domanda mal posta: il 56% degli aborti è infatti di tipo “chimico”, cioè ottenuto tramite pillola abortiva e non intervento ospedaliero. La rovinosa amministrazione Biden ha dato il suo contributo a questa spaventosa percentuale, consentendo per legge la distribuzione della pillola abortiva anche senza prescrizione medica, durante il periodo pandemico.
Che le scelte politiche abbiano un peso sul funzionamento e l’efficienza di questa macchina mangia-esseri umani è evidente però non soltanto nei dati globali, tristemente in aumento, ma anche in quelli di dettaglio, dove è possibile riscontrare passi avanti significativi: ad esempio, stati come il Texas e il Missouri, che hanno promosso politiche di più stretta disciplina della pratica abortiva, emergono come modelli positivi, laddove il primo registra una flessione del 6% e il secondo ottiene la palma di stato con il minore tasso di aborti. Al fianco di politiche illuminate si colloca poi anche l’attivismo e la diffusione di una cultura della vita, il cui reale effetto è riscontrabile aprendo la visuale a un arco temporale più ampio di quello preso in considerazione dal CDC. Si riscontrerà allora che il numero delle interruzioni di gravidanza negli USA è crollato del 18% dal 2011 al 2021 e complessivamente del 50% dal picco abortivo degli anni ’80 del secolo scorso. Come fanno gli investimenti con solide basi, dunque, l’attivismo per la vita porta utili sul lungo-lunghissimo periodo.
Certo, tutto questo parlar di numeri e statistiche “macro” può in ogni caso lasciare l’amaro in bocca. La “battaglia di cifre” è una caratteristica tipica delle contrapposizioni ideologiche, laddove una parte cerca di schiacciare l’altra sotto il peso delle evidenze matematiche, dimenticando che, come insegnava il poeta Trilussa, se utilizzate con scaltrezza, alle statistiche è possibile far dire un po’ tutto e il contrario di tutto. Meglio allora passare rapidamente dalla visuale analitica ampia alla concretezza dei fatti. Nella pratica significa rilevare che, secondo una recente ricerca sempre targata USA, nei soli primi sei mesi dell’anno corrente le politiche di stretta disciplina dell’aborto hanno consentito di vivere alla bellezza di più di 32.000 bambini. Di nuovo un numero, è vero, ma ogni sua unità è stavolta declinata in vita, da un lato, e dall’altro in termini di politiche efficaci: quei nuovi nati infatti sono venuti alla vita, non casualmente, in quegli stati che hanno promosso una razionalizzazione ragionevole della pratica delle interruzioni di gravidanza.
Vero è che negli Stati Uniti è consentito spostarsi da uno stato all’altro e che ogni stato ha la propria legislazione in materia, ma è altrettanto vero, stando alla ricerca citata, che il 20-25% delle donne incinte residenti in aree dove l’accesso all’aborto è strettamente disciplinato, decide di non spostarsi altrove per rinunciare alla maternità, ma resta dov’è e porta a compimento la gestazione. Senza dimenticare la prospettiva concreta per cui sta parlando di esistenze portate alla vita, ancora qualche numero aiuta a comprendere la proporzione dei passi avanti fatti: negli stati dove l’aborto è soggetto a restrizioni si è avuta una media di aumento delle nascite del 2,3%, con picchi straordinari come quello del Texas, che ha raggiunto un incremento del 5,1% delle nascite e un sostanziale azzeramento degli aborti, grazie alle sue politiche restrittive, attuate ancor prima che la Corte Suprema americana mettesse in discussione la famosa sentenza Roe contro Wade.
«È un trionfo che le politiche a favore della vita si concretizzino in vite salvate», commenta Kristan Hawkins, presidente di “Students for Life in America”, mostrando che anche per lui, come per noi, numeri, percentuali e statistiche contano solo nella misura in cui nella pratica significano vite, vite vere. «Ogni vita è importante», chiosa Chelsey Youman, consulente legislativa nazionale per la Human Coalition Action, «e noi esultiamo a ogni singola vita protetta da questo tipo di leggi», conclude riferendosi all’approccio texano alla questione, per poi avocare giustamente all’attivismo pro-life gran parte del merito per questi risultati. «Nei nostri centri accogliamo donne che considerano l’aborto per le solite ragioni: problemi economici e sociali. Quando le accompagniamo in percorsi di sostegno e assistenza, capiscono che esistono alternative all’aborto». Negli Stati Uniti come altrove, insomma, c’è la prova che il lavoro sul campo e un attivismo pacato ma determinato e costante sono la strada che si deve percorrere, perché la supremazia della vita sulla morte non va mai data per scontata, ma va costruita con impegno giorno per giorno.