Da sempre dolore e morte delimitano la condizione umana nel segno della fragilità e dell’impotenza, ma la sofferenza e la morte di un bambino – come Alfie – aggiunge inelaborabilità al lutto, perché, come ha scritto Albert Camus, «non è la sofferenza del bambino che è ripugnante di per se stessa, ma il fatto che questa sofferenza non è giustificata».
Alfie: l’iter medico
La breve vita di Alfie Evans ha incontrato il limite nella forma più tremenda e resistente di una malattia neurodegenerativa dalle conseguenze devastanti e dall’evoluzione progressiva ed irreversibile.
Nato il 9 maggio del 2016, il piccolo Alfie a dicembre era già in coma e iniziava il suo calvario all’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool fra i macchinari che lo tenevano in vita.
Quei sofisticati supporti marcano il progresso della medicina, che appare oggi in grado di prolungare la vita oltre quello che da sempre è stato il suo limite naturale. Ma nel caso di Alfie Evans è parso paradossale che questo scenario ipertecnologico non sia servito alla guarigione, ma semmai ad incatenarlo in una condizione di assoluta dipendenza. Né tutte le grandi acquisizioni, in termini di conoscenza medica, sono valse alla formulazione di una diagnosi certa e definita. Tanto più a dare speranza. Alfie non ha potuto più respirare e nutrirsi autonomamente. È rimasto attaccato al ventilatore per respirare e ha potuto nutrirsi solo attraverso un sondino, mentre la malattia non gli dava tregua con le sue crisi epilettiche e i suoi spasmi.
Allora dov’è allora il paradosso?
Il paradosso è nel fatto che i medici, pur in presenza di tanta indeterminatezza ed impotenza, non hanno avuto dubbi nel ritenere sproporzionati i trattamenti e sono apparsi assolutamente risoluti nel richiederne la sospensione. I protocolli di morte si sono, quindi, sostituiti alle diagnosi e quelli che avrebbero dovuto curare si sono trasformati in carnefici. I medici sono stati caricati, quasi loro malgrado, di una responsabilità assolutamente sproporzionata al ruolo: legittimare in nome della scienza un atto occisivo nei confronti di un innocente.
Alfie: l’iter giudiziario
La contrarietà dei genitori all’interruzione del trattamento ha avviato una dura battaglia legale giocata a colpi di appelli e ricorsi intorno al “best interest” (il miglior interesse) del bambino.
È stata prima interpellata la Corte Suprema britannica, che, ascoltati i medici, ha dato parere favorevole all’interruzione, quindi la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Ma anche questa si è espressa per l’interruzione del trattamento giudicando “catastrofica” la malattia. Di nuovo si è insinuato un angosciante paradosso, nella misura in cui i giudici hanno sentenziato che il miglior interesse del bambino, a fronte dello sforzo, giudicato immane, doloroso e inutile di tenerlo in vita, fosse l’interruzione dei supporti, cioè la morte!
E anche i termini in cui è stata espletata la vicenda legale sono stati paradossali.
Dopo una giornata convulsa, che ha visto un ritardo nell’esecuzione della sentenza, in un clima di divisione e lacerazione dell’opinione pubblica, inglese e mondiale, nella serata del 23 aprile, alle 21, il respiratore che teneva in vita Alfie è stato staccato. Due giorni dopo, il 25 aprile, si è consumato l’ultimo atto, con la Corte d’Appello di Londra che ha bocciato la domanda degli Evans di trasportare il piccolo in aereo da Liverpool al Bambin Gesù di Roma, ospedale che aveva dato disponibilità ad accoglierlo e curarlo.
Intanto Alfie ha continuato a respirare autonomamente, a dispetto degli automatismi di morte previsti dai medici e pre-giudicati dai giudici, al punto che l’ospedale, a 10 ore dal distacco del respiratore, ha dovuto concedere acqua e ossigeno.
Il bambino è morto alle 2:30 del 28 aprile, dopo 5 giorni di agonia, durante i quali non è stato concesso ai genitori di portarselo a casa.
Alfie: riconoscere il limite!
Quello di Alfie Evans è stato un caso estremo, ma sono proprio i casi estremi che evidenziano il limite dell’ideologia. Cosicché si sono toccati con mano gli inevitabili e rilevanti riflessi di natura morale e giuridica che derivano dalla legittimazione dell’eutanasia nelle sue diverse forme.
Alcuni hanno parlato di eutanasia di Stato, altri di accanimento ideologico, ma il fatto paradossale è che l’eutanasia, partita da un’istanza libertaria, in nome del principio di autodeterminazione dell’individuo, si sia in questo caso trasformata in un’intimazione dei giudici all’interruzione del trattamento. I giudici, come i medici, sono rimasti incardinati nelle loro determinazioni, arrivando a negare nello specifico il diritto ai genitori di far curare il bambino in altro ospedale, come pure le normative europee prevedono e contemperano. Lo Stato – come ha sostenuto Paolo Becchi – ha calpestato «il diritto dei genitori a decidere». «Il giudice inflessibile nulla ha concesso», nonostante «sino all’ultimo si sono battuti per la vita del loro bambino» (Il Giornale del 29 aprile).
Così, paradossalmente,si sono mostrati tutti i limiti degli apparati, arroccati nella difesa di se stessi a costo di sopprimere l’innocenza e di non valutare la speranza e la solidarietà.
L’ideologia della morte ha la sua logica che non ammette contraddittorio. Essa porta, come a suo esito ultimo, «alla eliminazione di tutte le vite umane che appaiono insopportabili. Così si sopprime la vita perché la si pretende perfetta» (C.E.I., documento pastorale Evangelizzazione e cultura della vita umana, n. 6). È un transito culturale paradossale «dalla pietas per la vita alla pietas per la morte (…) indice di una resa alla malattia, in presenza dei suoi limiti» (M. Cozzoli, Un transito culturale, in SIR 12-2-2009).
Chi può dire, infatti, che l’inguaribilità escluda la curabilità? Chi può presumere che il risultato determini l’impegno o, ancor più, il dovere di soccorrere o di essere solidali?
È allora per lo meno paradossale che in quest’epoca di illimitate certezze (la scienza, il diritto, la nostra libertà senza fine e scopo), la pretesa di circoscrivere il limite, di predeterminarlo, si riveli la cartina di tornasole della nostra presunzione.
Pretendiamo di essere creatori alle radici del nostro essere. Viviamo come non mai di assoluti. Ci lasciamo guidare da un principio tanto elementare quanto grossolano, se trasferito in etica, quello dell’efficacia. Occorrerebbe invece riconoscere il nostro limite. Perché la vita umana, così fragile ed ostinata assieme, è una realtà complessa e inafferrabile che nessuna competenza professionale o scientifica può ragionevolmente arrogarsi la legittimità di disporne e, ancor più, di sancirne la soppressione.
Clemente Sparaco