Le donne dovrebbero essere costrette ad aprire i loro spazi esclusivi a chi è nato uomo? Questa sarà la domanda posta oggi alla Corte Federale d'Australia nella causa intentata da Roxanne Tickle contro “Giggle”, una app di gossip, notizie varie e scambi di punti di vista intimi, riservata a sole donne.
Tickle, un maschio biologico che si identifica come donna, afferma di aver subito discriminazioni per essere stato bandito dalla app “in rosa”: essendo «legalmente autorizzato a identificarsi come donna» con tanto di certificato di nascita modificato, non dovrebbe trovare ostacoli a entrare negli spazi designati per le donne biologiche. La posizione della difesa di “Giggle” è chiara: Tickle non è stato escluso in base alla sua identità di genere, ma in base al suo sesso, non ammesso in una app per sole persone “designate” donne alla nascita. Pare distopico, ma sì, nei tribunali australiani si fanno questo tipo di distinzioni.
Se non che, posta così, la diatriba impone alla Corte di affrontare il conflitto tra le rivendicazioni sull’identità di genere e i diritti basati sul sesso. In altre parole deve decidere chi e cosa sia una “donna”. Sullo sfondo, posizioni politico-ideologiche già chiare da tempo e Sall Grover, CEO di “Giggle”, non ha paura di scoprire tutte le carte in tavola: «Per decenni, i movimenti delle donne hanno combattuto per il diritto ad avere spazi femminili nella società. Eppure oggi l’orologio viene riportato indietro. Ho progettato la mia app per dare alle donne il proprio spazio per fare rete. È una finzione legale che Tickle sia una donna. Il suo certificato di nascita è stato modificato da maschio a femmina, ma lui è un uomo biologico, e lo sarà sempre. Un'app riservata alle donne non riguarda la discriminazione. Riguarda la libertà di parola, di credo e di associazione. Stiamo prendendo posizione per la sicurezza di tutti gli spazi riservati alle donne, ma anche per la realtà e la verità fondamentali, che la legge dovrebbe riflettere».
Eppure siamo sul filo del cavillo legale. L’Australia infatti fin dal 1984 ha acquisito nella propria legislazione la Convenzione ONU sull’eliminazione della discriminazione contro le donne, e in questo senso la corte dovrebbe dare ragione a “Giggle”. Se non che nel 2013 il governo australiano ha modificato la legge per rendere illegale la discriminazione anche contro le persone sulla base dell’identità di genere, eliminando, già che c’era, le definizioni di donna e uomo basate sul dato biologico, e in questo senso avrebbe ragione Roxanne Tickle. Il problema, per la difesa di “Giggle”, sta proprio nell’incostituzionalità di quest’ultima decisione e nella sua totale incoerenza con la sopra citata Convenzione dell’ONU, firmata per altro da un gran numero di Paesi, molti dei quali alle prese con casi simili a quello della Tickle e di Giggle. La sentenza rivestirà quindi una grande importanza per molti paesi e per i molti movimenti in giro per il mondo attivi nella difesa delle donne.
Un attivismo che, partendo da un dato naturale incontrovertibile, coinvolge personaggi influenti come J.K. Rowling, forse la più odiata dal movimentismo arcobaleno, ma anche vere e proprie istituzioni. Recentemente, ad esempio, la Relatrice Speciale dell’ONU sulla violenza contro le donne e le ragazze, Reem Alsalem, ha presentato una petizione a Joe Biden affinché protegga gli sport e gli spogliatoi per sole donne dall’invasione di maschi che si sentono femmine. E alla fine è proprio lei, l’ONU, a dibattersi in un corto circuito che lei stessa a generato: se con una mano, ben pilotata dalle lobby del gender, spinge per la fluidificazione dei generi attraverso varie iniziative pressorie in ogni angolo del mondo, con l’altra non può che fare i conti con la realtà. Ed è proprio Alsalem che, interpellata sul caso australiano, innesca la contraddizione: «Pur non affrontando o definendo i termini “sesso” o “genere”, molti trattati e dichiarazioni fondamentali sui diritti umani, inclusa la CEDAW, sanciscono il divieto di discriminazione basata sul sesso, che può essere inteso solo come riferito al sesso biologico». E ci mancherebbe altro. Se non che la Alsalem dovrebbe dare un’occhiata al sito ONU e alle sue commissioni interne e scoprirebbe che le comunità LGBT+ sono classificate come “gruppo vulnerabile” alla pari con le donne.
«In un mondo confuso, è fondamentale che la legge sostenga sempre la verità. Gli uomini non possono diventare donne e non possiamo cambiare decenni di accordi legali e diritti duramente combattuti semplicemente per accogliere una menzogna. Questo caso ha implicazioni significative per il mondo, poiché le donne lottano in ogni angolo per mantenere il loro accesso, in nome dell’uguaglianza e della non discriminazione, agli spazi dedicati allo stesso sesso, inclusi sport, spogliatoi, gruppi di consulenza, centri di crisi e altro. Il diritto internazionale sa cos’è una donna ed è tempo che anche i tribunali australiani riaffermino la realtà biologica». A parlare così saggiamente è Robert Clarke, direttore dell'advocacy di ADF International, un'organizzazione per i diritti umani che protegge le libertà fondamentali e promuove la dignità intrinseca di tutte le persone, spesso intervenendo in specifici processi giudiziari, come in quello in corso in Australia.
ADF International, per la cronaca, è stata accusata di essere «un gruppo di estremisti religiosi contro i diritti umani per la sessualità e la salute riproduttiva, nonché uno degli oltre 50 attori anti-gender che operano in Europa». A definirlo così è stato il “Forum del Parlamento Europeo per i diritti sessuali e riproduttivi” (EPF). Intanto, a noi persone chiuse nella nostra medievale normalità non resta che attendere la sentenza della corte australiana, che finalmente ci chiarirà il grande mistero contemporaneo: cos’è una donna.