Il decreto del Tribunale di Milano che lo scorso 24 ottobre aveva ordinato agli ufficiali di Stato civile di palazzo Marino di rettificare l’atto di nascita di una bambina nata negli Stati Uniti così che entrambi i “padri”, Gianni e Andrea, vengano indicati come genitori, a tanti non è piaciuto. Non alla maggioranza del Consiglio comunale cittadino, con alcuni esponenti del Pd e della lista Sala dichiaratisi contrari alla legittimazione della pratica dell’utero in affitto e, soprattutto, non ad Arcilesbica, che si è detta fermamente contraria a qualsivoglia apertura nei confronti di quella che alcuni, per edulcorarne le gravissime implicazioni antropologiche, chiamano “gestazione per altri”.
In un suo comunicato l’associazione, composta come noto da sole donne, «in nome della non commerciabilità dell’umano», ha fatto presente «come chi va all’estero per aggirare il divieto italiano contro l’utero in affitto», in buona sostanza «premedita di imporre l’iscrizione anagrafica del/la neonata come figlio/a ‘di due padri’, strumentalizzando “il migliore interesse del/la minore». «Ma il migliore interesse del/la minore», puntualizza Arcilesbica, «è non essere separato/a per contratto e per soldi da chi l’ha messo al mondo: sua madre». Una presa di posizione che ha visibilmente irritato l’organizzazione Lgbt Coordinamento Arcobaleno, la quale ha replicato fra le altre cose dicendo quello che si sottolineava poc’anzi, e cioè la preferenza per l’espressione “gestazione per altri”.
Ora, per quanto significativo, quello di Milano non è un caso isolato. Non è infatti da oggi, bensì da anni, che la più grande associazione nazionale di donne lesbiche dichiara che «il primato femminile rispetto al generare è un dato che appartiene all’ordine delle cose ed è l’unica differenza che non può non essere riconosciuta» (Il Manifesto, 5.11.2015). Ne è conseguita una rottura col fronte Lgbt assai aspra, culminata in episodi più o meno rilevanti. Si pensi al Dolomiti pride svoltosi il 9 giugno scorso a Trento: Arcilesbica non si è fatta viva. Non solo. Oltre a tenersi alla larga dal corteo, l’associazione aveva definito il manifesto degli organizzatori «irricevibile» perché «lontano anni luce dalle istanze di reale liberazione che hanno dato origine al movimento Lgbt e a tanti altri movimenti di liberazione, in primis quello delle donne».
Una lontananza determinata, anche in quella occasione, dalla non condivisione della necessità – invece sposata da Arcigay e company – di «normare la surrogacy, convinti che la proibizione non sia la via da percorrere, ma che si debba farlo tenendo conto dei limiti e delle problematicità delle legislazioni di altri Paesi e dopo un approfondito dibattito bioetico e giuridico». Non se ne parla neppure, avevano allora fatto sapere da Arcilesbica, i cui vertici fecero presente di avversare non a seconda casi bensì incondizionatamente «l’introduzione in Italia dell’istituto giuridico della maternità surrogata, una pratica intrinsecamente lesiva dell’autodeterminazione femminile».
La contrarietà dell’associazione nazionale di donne lesbiche al decreto del Tribunale di Milano sull’atto di nascita con “due papà” è dunque davvero solo l’ultimo episodio di una serie che, se da un lato non può certo cancellare la distanza valoriale – notevole – fra i difensori della famiglia naturale e questo movimento, dall’altro fa comunque onore a quest’ultimo che, in ogni caso, conferma la propria autonomia di pensiero anche quando essa non risulta particolarmente conveniente. Ma l’obbligo morale di ribadire che di mamma ce n’è una sola, evidentemente, è più forte di ogni difficoltà.
Giuliano Guzzo