Ho iniziato a capire che si dovesse dire «bambini» per dire i piccoli un po’ tardi. Penso alle elementari.
Ma quella parola mi è sempre suonata lontana, estranea, forse addirittura un po’ snob.
Per me, i bambini erano «’e creature» (le creature), come si dice dalle mie parti.
Attenzione, non è la solita storia di deprivazione culturale, né tanto meno il solito quadretto di un’oleografia scontatamente folcloristica, perché i miei genitori erano entrambi laureati e, per altro, insegnanti. È semplicemente il racconto di un’esperienza, nemmeno tanto particolare, che fa parte delle mie radici più profonde ed intime.
Col tempo ho appreso che quella parola (creatura) poteva avere un significato diverso da quello immediato che avevo imparato, come fanno i piccoli, per imitazione dai grandi.
Mi sono chiesto allora perché si dicesse proprio così… perché invocare la creazione, richiamarla, in qualche modo, per definire i bambini?
L’ho associata alla premura delicata ed indeterminabile che sapeva mostrare per me mio padre in alcuni momenti, lui che pure era così severo e serio. Perle di affettività che avevano tanto più valore, perché rare, parole essenziali, come essiccate al sole e asciugate di ogni liquida superfluità. Era un amore ritroso, per quella sobria austerità che avevano gli uomini di quella generazione nel manifestare i sentimenti, che si faceva verbo e si incarnava: «’A creatura mia» («La mia creatura»).
L’ho collegata, fatti i miei studi da grande, allo stupore del Creatore di fronte all’opera delle sue mani, quando l’ha guardata e ha detto tob (in ebraico bello). Vi ho riscontrato la stessa infinita tenerezza e quello stupore primordiale divino mi si è fatto improvvisamente presente.
Vi ho scoperto dentro (quella parola) un senso mistico, condito di un silenzio carico di risonanze. Essa tratteneva in sé il mistero della vita e della sua trascendenza rispetto alla nostra impotenza morale ed intellettuale. Perché «‘e creature» nella loro inerme bellezza hanno la traccia dello stupefacente miracolo della vita che si ripete e rinnova, sempre altro dalla nostra immaginazione e dai nostri tentativi di determinazione. E quando quel miracolo mi è scoppiato fra le mani, perché ha detto: «papà…», ho sentito la parola creativa di Dio inaspettatamente rivolta a me. Proprio a me e proprio in quel momento così uguale ad altri, che non ero preparato.
Sulla soglia del mistero bisogna arrestarsi. Andare oltre sarebbe un atto di protervia irrispettosa. Bisogna fare silenzio e ascoltare, invece di dire, per ritrovarvi le parole nella loro valenza originaria, evocativa e creativa assieme. Cosicché l’ho ritrovata nella notte e nel dolce sonno di un bambino la cui fronte un papà premuroso segna di un ultimo bacio dopo avergli fatto ninna nanna.
Perché «i figli – anche questo mi diceva mio padre – si baciano in sonno», e non solo per non darlo a vedere, come lui pure mi aveva insegnato, cosìcché non se ne adontassero, ma perché solo la notte con il suo infinito silenzio sa custodire l’amore che non si trattiene.
Clemente Sparaco
per un’informazione veritiera sulle conseguenze fisiche e psichiche dell’ aborto