15/03/2016

Bioetica senza legge naturale è utilitarismo e arbitrio

In un’intervista rilasciata dal professor John Keown, del Kennedy Institute dell’Università di Georgetown, a Xavier Symons, vice direttore di BioEdge, ci sono interessanti spunti sulla bioetica: deve essere una scienza basata sull’utilitarismo o sulla legge naturale?

Allo stesso modo, la deontologia professionale: va vista in prospettiva utilitaristica o alla luce della legge morale naturale, soprattutto nel campo della medicina?

Il professor Keown ha recentemente scritto un libro sulla necessità che legge naturale sia alla base della bioetica, intitolato “Bioethics and the Human Goods: An Introduction to Natural Law Bioethics” (che significa Bioetica e beni umani: Introduzione alla legge bioetica naturale) .

Va  molto di moda dire e insegnare che il diritto naturale non esiste. Ma per fortuna con Keown, ci sono illustri cattedratici, come Grisez, Finnis, Boyle, Kaczor, Tollefsen, Oderberg, Gormally, Jones, Watt, Gómez-Lob   che hanno contribuito alla riscoperta della legge naturale in questi ultimi 35 anni.

Era stata la mentalità positivista a dichiarare il diritto naturale morto e sepolto, fin al XIX secolo. E i positivisti credono che esiste solo la legge positiva, cioè quella fatta dallo Stato. Perciò, sarà la legge stessa (votata a maggioranza o imposta da un dittatore, a questo punto poco importa) a definire cosa è bene e cosa è male. E perciò la bioetica non avrebbe ragion d’essere se non con un approccio utilitaristico.

Koewn, invece sottolinea come sia fondamentale il contributo che la legge naturale può dare nel campo della bioetica, soprattutto nel campo dell’etica della sanità. La teoria del diritto naturale è la tradizione morale più duratura e importante di tutto il pensiero occidentale, e ha avuto una profonda influenza sul diritto e in genere sulla cultura.

Molte leggi e codici deontologici sono radicati nella legge naturale, in quei principi morali fondamentali che che l’uomo sa, da sempre e in ogni luogo, di dover rispettare, a prescindere dalle conseguenze. Ad esempio, il divieto per il medico di uccidere i pazienti intenzionalmente è insito nella legge della quasi totalità delle giurisdizioni mondiali, e l’etica della World Medical Association, si fonda su tale principio. Beninteso, tale norma vale al di là del campo sanitario: è sempre sbagliato uccidere intenzionalmente una persona, anche su richiesta di quella persona stessa.

Solo con un approccio di questo genere, basato sul diritto naturale, si può considerare sbagliato intrinsecamente il trattare i pazienti in modo disumano, come cavie, mentire loro, o usarli, strumentalizzarli in altro modo approfittando della loro posizione di debolezza.

Invece, al giorno d’oggi prende piede un pericoloso approccio utilitarista nella formazione bioetica dei medici. Keown, allora sostiene che non è concepibile una formazione in medicina,  e specialmente in biomedicina, senza un’adeguata riflessione sulla legge naturale.

Purtroppo viviamo in una cultura fortemente improntata a una visione utilitarista. Si può addirittura dire edonista. E sappiamo come questa cultura ci porti a pretendere di eliminare la sofferenza e il dolore ad ogni costo. Anche a costo di eliminare chi soffre. Oltre, ovviamente, tutti coloro che sono inutili, coloro che sono economicamente un peso per la società.

Nel libro di Keown ci si interroga su quali siano  ” i beni della vita”. Se si risponde che il bene della vita è il piacere o la soddisfazione dei desideri, si possono a tal fine giustificare tutti gli atti immorali che si vuole, purché diano piacere. Il giusnaturalismo, invece, considera il bene della vita, il senso della vita, la realizzazione vera dell’essere umano. Keown spiega che bisogna ricercare quei “beni in sé” la come la salute, l’amicizia, la conoscenza, la bellezza, il lavoro, il gioco e la ragionevolezza pratica, beni che vale la pena di perseguire per se stessi, al di là del fatto che possano essere usati per un fine ulteriore (la conoscenza per esempio, è un bene in sé anche se strumentalmente utile ad altro).

A noi piace usare una semplice metafora per spiegare cosa sono questi “beni in sé”. Potremmo immaginare l’essere umano come un diamante grezzo, che si deve lavorare e pulire fino a giungere al cuore della pietra, che mostra tutto il suo splendore. La fruizione dei “beni in sé” conduce a tale risultato, conduce a far risplendere la somma dignità dell’essere umano, che si staglia su tutto il resto del creato (e questo lavoro di pulitura potrebbe, in taluni momenti, non essere scevro di dolore...). Il male (o i falsi beni), invece, sporcano, deteriorano, opacizzano il brillante.

E’ “bene”, quindi, quello che conduce a far risplendere l’umanità dell’uomo. E con questa idea di “bene” si supera qualsiasi problema logico di categorizzazione di ciò che è bene e ciò che non lo è, che è l’impasse in cui cadono spesso i giusnaturalisti che si impegnano in cervellotiche classificazioni.

Interessante, poi, le considerazioni di Koewn sul fatto che, sebbene il giusnaturalismo sia compatibile con le principali tradizioni religiose, non si fonde, né si confonde con la religione.

La teoria del diritto naturale rimane una filosofia, non è teologia, perché la legge naturale si fonda sulla ragione, non sulla fede. Certi principi su cui si è poi sviluppata la tutela della vita, della proprietà, e anche il principio di solidarietà, sono insiti nella natura umana e vigevano persino nelle prime società preistoriche.

Solo la legge naturale ci salva dall’arbitrio, dalla dittatura della maggioranza e dal relativismo etico che sta montando per distruggere, alla fine, il bene e la stessa umanità.

Francesca Romana Poleggi

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