La storia di Mya DeRyan non è solo la storia di una seconda possibilità di vita, ma è un avvertimento per i fautori della legalizzazione dell’eutanasia, anche sotto forma di biotestamento vincolante per i medici, come le DAT che vogliono approvare in questi giorni.
Mya DeRyan pensava di avere una malattia terminale e ha deciso di suicidarsi.
In una nota ha scritto al figlio: “Il mio corpo sta soffrendo. Il mio cuore è pieno. È tempo. Ti amo.”
Si è imbarcata su un traghetto a Vancouver, a metà della navigazione si è spogliata e si è gettata nell’acqua ghiacciata.
Qualcuno, però, l’ha vista e l’hanno ripescata.
Dopo una settimana d’ospedale per ipotermia, i dottori le hanno detto che non era affatto malata terminale.
La donna è rinata a nuova vita, si considera benedetta dalla fortuna (o dal Cielo, a secondo dei punti di vista) ed è tornata a casa dal figlio.
Se avesse chiesto l’eutanasia, se avesse inserito la richiesta di morire in un biotestamento, ora sarebbe morta e sepolta e avrebbe ben poco da rallegrarsi della bella notizia.
Un magistrato italiano, Pietro D’Amico, nell’aprile 2013 era andato a farsi suicidare in Svizzera: poi dall’autopsia si è visto che anche lui non era malato terminale: ma ormai non può più gioirne.
In prossimità della Giornata Mondiale dei Diritti Umani sarà bene farci un pensiero su. Il “diritto all’autodeterminazione” da cui discende il “diritto di far quello che vogliamo” con la vita propria (eutanasia e biotestamento) e con la vita degli altri (aborto, fecondazione artificiale) è un falso diritto. E non è certo uno dei diritti inviolabili dell’uomo. Quello fondamentale, naturale, si chiama diritto alla libertà che secondo la nostra costituzione (art.13, 1° comma) è anzitutto un dovere (il dovere di non violare la libertà altrui), ed è appunto un diritto inviolabile, ma non è un diritto “illimitato”.
Redazione
Fonte: LifeNews
per un’informazione veritiera sulle conseguenze fisiche e psichiche dell’ aborto