Ha dell’incredibile la notizia diffusa da qualche giorno dalla rivista The Lancet a quasi un anno di distanza dall’evento di cui stiamo per parlare: il 15 dicembre 2017, all’ospedale universitario di San Paolo del Brasile, è nata la prima bimba dopo un trapianto di utero da donatrice non vivente. In passato, in Svezia e negli Usa si erano già ottenute gravidanze tramite il trapianto dell’utero proveniente tuttavia da donne ancora in vita. In questo caso, invece, l’organo donato proveniva da una donna di 45 anni, madre di tre figli, deceduta a causa di un’emorragia cerebrale.
La ricevente è invece una trentaduenne nata senza utero a causa delle sindrome di Mayer-Rokitansky-Kuster-Hauser che si era sottoposta alcuni mesi prima a fecondazione in vitro, ottenendo otto embrioni, con il seme del suo compagno, che sono stati congelati in attesa dell’intervento. Il trapianto è avvenuto nel 2016, e dopo alcuni mesi in cui tutto sembrava proseguire senza complicazioni, al settimo mese è stato impiantato uno degli embrioni. Come avviene quasi sempre in questi casi, la bambina è nata prematura e inoltre, durante tutta la gravidanza la paziente ha dovuto prendere farmaci antirigetto. In questo inesorabile processo di disumanizzazione dell’atto riproduttivo e dell’esperienza della gravidanza in cui la vita è vissuta sempre meno come un dono e sempre più come un freddo esperimento da laboratorio – processo che, purtroppo, sembra procedere speditamente – i rischi non sono pochi.
Pensiamo che dopo la nascita della piccola i medici hanno dovuto rimuovere l’utero trapiantato per evitare che la donna continuasse ad assumere i medicinali antirigetto. Un’operazione non certo esente da rischi, per non parlare della strage degli embrioni che la fecondazione assistita comporta, o perché vengono scartati o perché muoiono durante il procedimento di fecondazione artificiale. Insomma, una pratica tremendamente forzata che mette a rischio la vita della mamma come quella del bambino e che sposta ancora il limite etico oltre il quale la scienza può spingersi, tanto che le parole chiare e nette usate dal professor Giorlandino, direttore generale dell’Italian College of Fetal Maternal Medicine, per commentare questo evento, non lasciano spazio a dubbi su questo: se il trapianto di utero da persona non vivente è l’oggi, è già individuabile un nuovo, ambizioso “traguardo” da raggiungere e possibilmente superare, come ha lui stesso affermato: «Le strategie di donatore vivente e cerebrale non si escludono a vicenda e, vista l’attuale scarsità di innesti uterini e il previsto aumento futuro della domanda, entrambi saranno probabilmente necessari».
Manuela Antonacci