21/06/2024 di Giuliano Guzzo

Dagli Usa alla Germania, passando per Olanda, Cile e non solo. Ecco come rallentano le terapie per la transizione dei minori

Il ripensamento dell’ideologia gender e dei suoi assunti, a partire da quello secondo cui si può allegramente “cambiare sesso” – o comunque avviare a questo processo i giovani, ogni settimana che passa si fa più ampio e internazionale. Da questo punto di vista, stupisce che in Italia solo alcuni organi di stampa diano conto del fenomeno, rafforzando così la sensazione che non è vero che l’Italia sia «in ritardo» sui diritti, mentre è purtroppo vero, e paradossale nell’era della comunicazione, che in Italia certe notizie arrivino «in ritardo».

Tra queste notizie stranamente dimenticate c’è senza dubbio quella che vede in due importanti Paesi, la Germania e la Svizzera, le società mediche non solo consigliare cautela sulla medicalizzazione di genere dei minori, ma anche chiedere la revisione della bozza di linee guida sul trattamento in lingua tedesca che liberalizzerebbe l’accesso alla transizione pediatrica. Insomma, una bella frenata, che guarda caso – anche se non è certamente un caso – giunge nello stesso periodo in cui, proprio dalla citata Germania, un nuovo studio intitolato Störungen der Geschlechtsidentität bei jungen Menschen in Deutschland conferma quello che gli specialisti e critici della medicalizzazione precoce in fondo già sapevano, e cioè che nel giro di 5 anni dalla diagnosi quasi 7 minori con disforia di genere su 10 "desistono", ritrovando armonia con il proprio sesso biologico.

 Anche negli Stati Uniti lo stop a certo dogmatismo gender in medicina non accenna a dilagare, anzi. Interessa anche le aule di giustizia, come prova il fatto che la settimana scorsa un giudice federale abbia stabilito che il Texas non è tenuto a seguire le linee guida dell’amministrazione guidata da Joe Biden che interpretano i divieti contro la discriminazione sessuale in modo da includere l’identità di genere e l’orientamento sessuale. Non solo: quella corte ha pure evidenziato come il Dipartimento dell’Istruzione della Casa Bianca avesse compiuto un sostanziale abuso di autorità quando, nel 2021, stabilì che le scuole sarebbero state responsabili di discriminazione nella misura in cui avessero adottato politiche di limitazione nell’accesso ai bagni in base al sesso.

Certamente un pronunciamento di un giudice del Texas non vale quello della Corte Suprema, ma non può neppure essere ignorato né sottovalutato, soprattutto se arriva in un tempo in cui l’indottrinamento scolastico – basti pensare alla carriera alias – anche da noi procede a tappe forzate. Tornando a noi, e cioè al ripensamento globale delle politiche pro gender, c’è da segnalare come esso non riguardi oggi solo gli Stati Uniti ma anche il Sud America. Precisamente il Cile, dove il ministro della Sanità, Ximena Aguilera, nei giorni scorsi ha preso di petto la questione arrivando a dare opportune disposizioni affinché il sistema sanitario pubblico della nazione di non fornisca bloccanti della pubertà o ormoni sessuali incrociati a nessun nuovo paziente. In tutto ciò ha avuto sicuramente un merito il crollo del mito del protocollo olandese e la pubblicazione del citato rapporto Cass; per quanto riguarda il primo, va ricordato che ormai è trascorso un quarto di secolo da quando i medici olandesi proposero la soppressione della pubertà come intervento per i “transessuali giovani”, che divenne lo standard internazionale per il trattamento della disforia di genere nonostante contenga affermazioni oggi non più ritenute credibili.

Come dimostrano infatti vari studi, incluso uno pubblicato sul Journal of Sex & Marital Therapy, la prova principale a favore del protocollo olandese proveniva da una indagine longitudinale su 70 adolescenti che erano stati sottoposti a soppressione della pubertà seguita da ormoni sessuali incrociati e intervento chirurgico. I loro esiti subito dopo l’intervento chirurgico sono allora apparsi positivi, ad eccezione di un paziente che è deceduto, ma questi risultati si basavano su un piccolo numero di osservazioni e misurazioni inadeguate, tanto che poi l’esperimento di replica condotto in Gran Bretagna non ha riscontrato alcun miglioramento.

Insomma, davvero più che di protocollo olandese si dovrebbe davvero oggi parlare di (triste) mito del protocollo olandese. Prova ne sia il fatto che recentemente il ministro della Sanità dei Paesi Bassi, Pia Dijkstra, se da una parte ha provato a minimizzare le ricadute della nuova letteratura scientifica sul protocollo olandese, dall’altra si è lasciata scappare parole che suonano come una ammissione di responsabilità politica. «Anche io», ha dichiarato, «vedo i dilemmi associati all’assistenza ai minori transgender». «Dilemmi associati all’assistenza ai minori transgender»? Ma se il protocollo olandese è così sicuro ed attendibile, che «dilemmi mai dovrebbero esserci»?

Evidentemente così non è. In ogni caso, a febbraio, la Camera bassa aveva già approvato una mozione di Rosanne Hertzberger, che chiedeva una ricerca per confrontare i risultati del protocollo olandese con i risultati di nuove e più caute politiche di trattamento altrove in Europa. Una richiesta che, dopo il recente scossone politico delle europee, che ha visto anche nei Paesi Bassi crescere (anche se non sfondare, ci tengono a dire alcuni media) gli oppositori dei progressisti, probabilmente tornare attuale e speriamo abbia seguito.

Tornando invece al rapporto Cass, c’è da aggiungere come esso stia facendo scuola anche in Australia, dove ben 17 membri del Royal Australian & New Zealand College of Psychiatrists si siano fatti avanti con una lettera per chiedere allo stesso collegio di sollecitare i ministri della sanità «ad istituire un organismo indipendente per indagare sui servizi di genere pediatrici australiani ed attuare le raccomandazioni del rapporto Cass». Speriamo che questo appello abbia un seguito dato che già quattro anni fa, sempre in Australia, il Royal Australian College of Physicians diffuse il Care and treatment of children and adolescents experiencing gender dysphoria, un documento in cui, a proposito della disforia di genere nell’infanzia e nell’adolescenza, si parlò di «un'area emergente dell'assistenza sanitaria», sulla quale «le prove esistenti sulla salute e sugli esiti dell'assistenza clinica sono limitate». Ciò è dovuto, continuava il documento, «al numero relativamente piccolo di studi, alle dimensioni ridotte delle popolazioni di studio, all'assenza di follow-up a lungo termine».

Insomma, anche in Australia in realtà sapevano da anni quello che il report Cass avrebbe poi portato alla luce e denunciato. Solo che, come anche altrove è capitato, si è scelto di temporeggiare. Mettendo così a rischio la salute di tantissimi giovani che, anziché avviati al “cambio di sesso”, andavano semplicemente ascoltati. Ma per fortuna adesso il vento sta cambiando e la prudenza, troppo a lungo trascurata, sta tornando ad avere anche nelle organizzazioni mediche il suo meritato protagonismo.

 

 

 

 

 

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