16/05/2024 di Matteo Delre

L'Africa lancia l'allarme sulla colonizzazione ideologica dell'Europa su aborto, agenda Lgbt e sessualizzazione precoce

Charles Kanjama è un importante avvocato keniota che durante la Seconda Conferenza interparlamentare africana sui valori della famiglia e la sovranità, tenutasi la scorsa settimana, ha esortato le nazioni africane a respingere un trattato dell’Unione Europea che costringerebbe i paesi – africani, appunto - ad accettare i cosiddetti “diritti” all’aborto, Lgbtqia+ e addirittura l’educazione sessuale infantile.

Per altro, il tutto avviene nel miglior stile occidentale. Kanjama ha infatti sottolineato che mentre l’accordo precedente era incentrato sulla garanzia di «un accesso preferenziale ai beni e alle sostanze europee nel mercato africano», l’UE ha successivamente condizionato l’accettazione del trattato all’espansione ad altri diritti umani quali la democrazia, la pace, la sicurezza e le questioni relative allo sviluppo sociale. E fin qui tutto bene. Se non che, al capitolo riguardante la salute e i diritti sessuali e riproduttivi, la condizione posta dall’UE è di accettare i “diritti” LGBT, l’aborto e l’educazione sessuale per i più piccoli. Condizioni semi-nascoste, che l’UE ha pure imbarazzo nel chiamare col loro nome. Come fa notare l’avvocato keniota, infatti, nel trattato non si usano mai termini come “LGBT” o “aborto”: le tematiche vengono insinuate nell’accordo attraverso eufemismi.

«Nel 2010, quando la costituzione del Kenya era prossima a un processo referendario, è stata utilizzata una strategia simile da alcuni parlamentari», ha detto Kanjama. «Alla fine quel linguaggio eufemistico è la porta che viene utilizzata per introdurre tutti questi programmi sotto la maschera dei diritti umani». E per introdurli dappertutto, aggiungeremmo noi, perfino in un mero accordo commerciale. Un esempio? Eccolo: nel trattato si dice che «le Parti si impegnano a prevenire, combattere e perseguire ogni forma di violenza e discriminazione sessuale e di genere». Tutto bellissimo, se non fosse che poi si fa un rimando alla definizione di “discriminazione contro le donne” data dalla CEDAW, uno dei quartier generali femministi internazionali, in cui per esempio l’opposizione all’aborto viene definita come una forma di «violenza di genere che, a seconda delle circostanze, possono costituire tortura o trattamenti crudeli, inumani o degradanti». Nientemeno. Altro esempio è nella vaghezza con cui si parla di estremismo violento e incitamento all’odio. Categorie in cui facilmente rientrerebbero le molte leggi africane che limitano l'agenda LGBT o vietano la promozione del transgenderismo tra i bambini, mentre “gruppi di odio” verrebbero facilmente definite le associazioni che promuovono il matrimonio tra uomo e donna.

Non è la prima volta che l’Africa alza gli scudi. La Dichiarazione di Entebbe, pubblicata lo scorso anno dalla Conferenza interparlamentare africana sui valori della famiglia e la sovranità, aveva già preso di mira queste tendenze: i partecipanti avevano denunciato a chiare lettere la promozione, all’interno dei più recenti trattati proposti dall’occidente, della “sessualizzazione del bambino africano”, magari attraverso obblighi di “educazione sessuale completa”, ovvero erogata con l’utilizzo di contenuti sessuali espliciti. Un vero affronto ai “valori culturali” africani. Problemi incomprensibili per la nostra UE, secondo cui i “diritti sessuali dei minori” fanno parte integrante dei diritti umani in generale e a questo scopo ha anche ideato una serie di ributtanti materiali e strumenti “didattici”. Tutta spazzatura che l’Africa rispedisce al mittente: alcune nazioni stanno infatti riconsiderando il loro consenso al trattato, inclusa la Nigeria, che non era presente alla firma e ha affermato che l’accordo era in fase di revisione con «l’obiettivo di garantire che le sue disposizioni non violino la legislazione nazionale della Nigeria», e la Namibia, che ha rilasciato una dichiarazione ministeriale in cui sottolinea che diverse disposizioni del trattato «non sono in linea con la Costituzione della Namibia».

Ma c’è – purtroppo - sempre l’arma del ricatto. Kanjama ha infatti spiegato che molti paesi africani temono, rifiutando di firmare il trattato, di non poter più commerciare con l’UE, e quindi «hanno già ceduto alle pressioni per firmare l’accordo». Unica via, secondo l’avvocato, sarebbe quella di modificarlo, ma ha sottolineato che ciò richiederebbe qualcosa di difficile: convincere i 27 Stati membri dell'Unione Europea a rinunciare ad alcune disposizioni. Meglio ancora, come previsto dalla Convenzione di Vienna, sarebbe la soluzione di accettare il trattato in via condizionata, sebbene ci sia il rischio che l’UE si opponga e la questione vada molto per le lunghe. In ogni caso, molti leader africani restano con la guardia alzata: hanno ben chiaro che, tra i vari tranelli, c’è anche il fatto che il trattato proposto avrebbe una durata di vent’anni, giusto il tempo che ci vuole per fare il lavaggio del cervello a un'intera generazione.

Certo, si dirà, sono i soliti temi, conosciuti e stra-conosciuti, così come noti sono i soliti famigerati che li portano avanti, dunque niente di nuovo nel degrado galoppante. Eppure l’iniziativa dell’avvocato Kanjama, la resistenza di Kenya, Nigeria, Namibia e dei tanti altri che magari ingoiano il rospo delle follie occidentali pur di avere nuovi sbocchi commerciali, qualcosa possono insegnarci. Sì perché a tutti è chiaro quale sia la natura politico-ideologica della fonte di quelle brutture e dell’infamia di tentare di imporle ad altri, insinuandole anche nei contratti commerciali. E tutti sanno che tra poco (i prossimo 8 e 9 giugno) saremo chiamati a esprimerci, alle urne, per definire la nuova natura politico dell’Unione Europea. Ecco allora che tutti noi potremmo essere Kanjama, Nigeria o Namibia, ovvero prendere nota di chi sono i partiti e i movimenti che appoggiano l’attuale governance europea e scartarli in blocco dal novero dei votabili. Dopo di che dovremmo andarci a leggere con precisione il programma dei partiti che restano, magari contattarli e chiedere loro impegni chiari e rigorosi, per poi votarli in massa. Potrebbe essere che, così facendo, la proposta di “accettazione condizionata” ipotizzata da Kanjama trovi nel prossimo futuro un governo europeo disponibile ad ascoltarlo e a cancellare le vergognose condizioni da regime post-umano inserite nel trattato commerciale con Africa, Caraibi e Pacifico, così come in ogni altra carta internazionale.

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