Ancora due dolorose testimonianze: i nostri Lettori vorranno farne tesoro, insieme alle tante altre pubblicate in passato su questa nostra Rivista, perché è importante poter controbattere aI mainstream che presenta solo storie di trans perfettamente felici e realizzati; per poter rispondere a chi (ancora) sostiene che il “cambiamento di sesso” (che comincia - non dimentichiamolo - con la “transizione sociale” e quindi la carriera alias) sia necessario per il benessere dei giovani con disforia.
Layla Jane
«L’intervento chirurgico e i trattamenti ormonali sono stati spinti come l’unica via da seguire. Non mi è stata data alcuna informazione su quanti desistono dalla transizione di genere; anzi i medici mi dissero che avrei avuto maggiori probabilità di suicidarmi se non avessi intrapreso subito il percorso. Così i miei genitori si sono limitati alla scelta tra un “figlio vivo” piuttosto che una figlia morta». Si racconta così a Fox News Layla Jane, giovane californiana di 18 anni che ha manifestato un disturbo di disforia di genere all’età di undici anni e che ha recentemente citato in giudizio i medici che a dodici anni le hanno prescritto ormoni e l’anno successivo le hanno praticato una doppia mastectomia. Tali medici, invece di curare i suoi reali problemi di salute mentale legati anche alla non accettazione di sé e del proprio corpo, le hanno subito fatto intraprendere il percorso di transizione per il “cambio sesso” che «ha peggiorato i miei problemi piuttosto che risolverli», afferma ancora Layla.
«È sbalorditivo che un medico mi abbia prescritto una doppia mastectomia, senza che avessi mai seguito un corso di educazione sessuale. Avevo appena cominciato la terza media, avevo 13 anni», ha scritto lo scorso 19 marzo Layla sul proprio profilo Twitter.
Frode intenzionale, procedure di transizione di genere senza consenso informato e adeguati screening della salute mentale sono i capi dell’accusa intentata da Layla, rappresentata dall’avvocato Harmeet Dhillon, contro la Kaiser Permanente di Oakland che le ha rimosso il seno senza indugio. La Kaiser Permanente non è estranea a tale prassi, anche perché ha alle spalle una storia di radicalismo pro Lgbtq+, promuovendo in modo particolare il movimento Drag Queen Story Hour, in cui i travestiti leggono libri ai bambini nelle biblioteche pubbliche per inculcare l’idea che si può essere “fluidi”.
A causa di tale «mutilazione irreversibile e permanente», Jane ora soffre di dismorfismo corporeo, ansia, depressione, difficoltà puberali, incapacità di allattare, problemi endocrini e ha maggiore probabilità di sterilità.
«Non credo che avrebbero dovuto permettermi di cambiare sesso prima di avere l’età per poter fare sesso legalmente. Non credo di stare meglio e penso che la transizione di genere abbia semplicemente aggiunto benzina sul fuoco di quella che era la mia condizione preesistente».
Michelle Zacchigna
«Vivrò il resto della mia vita senza seno, con la voce profonda, calvizie di tipo maschile e senza la possibilità di rimanere incinta. Aver rimosso il mio utero completamente sano è il mio più grande rimpianto». Questa volta a raccontare a LifeSiteNews la propria storia è Michelle Zacchigna, giovane donna di 34 anni di Orillia, Ontario. A 21 anni si è sottoposta a cure ormonali e interventi chirurgici per diventare un maschio; oggi intenta la prima causa legale in Canada da detransitioner, citando in giudizio otto medici e «gli esperti della salute mentale» che l’hanno supportata nel processo di automutilazione. Depressa, ansiosa e autolesionista, trova su Tumbler una comunità di trans che la rassicura invece sugli effetti benefici e positivi del cambiamento di sesso. Una volta diagnosticata la disforia di genere viene subito sottoposta a testosterone sintetico, che ne ha poi alterato in modo permanente la voce e l’aspetto. Solo 14 mesi dopo subisce anche lei una mastectomia bilaterale per rimuovere entrambi i seni. A otto anni dall’inizio della transizione le viene asportato anche l’utero; il tutto interamente a carico dei contribuenti canadesi attraverso l’Ontario Health Insurance Plan (Ohip).
«Prendere progressivamente consapevolezza del fatto che non potrò avere figli è stato devastante. In certi giorni il dolore per quello che ho fatto a me stessa è travolgente. Piango, non riesco a smettere di piangere. Altri giorni sono arrabbiata per non essermi sottoposta a ulteriori screening per approfondire la diagnosi prima che mi venissero prescritti gli ormoni», afferma ancora Michelle. Anni dopo il trattamento le sono stati diagnosticati Adhd, tic nervosi, disturbo borderline di personalità, disturbi d’ansia, disturbo dello spettro autistico e tratti di disturbo post-traumatico da stress. Si tratta di aspetti che i medici non si sono preoccupati di diagnosticare prima che intraprendesse il percorso di transizione di genere, così come non hanno mai contestato o contraddetto la sua richiesta di transizione.
«Non amo il fatto di poter essere scambiata per un maschio. Mi ricorda quello che ho perso durante il processo di transizione. Adesso uso gli spogliatoi (delle donne) in palestra, ma quando entro non guardo negli occhi nessuno, uso una cabina per cambiarmi, entro ed esco il più velocemente possibile per paura di mettere qualcuno a disagio; stessa cosa quando uso i bagni pubblici». Esterna così il 21 dicembre 2022 il proprio disagio interiore Michelle sul suo blog Some Nuance, please!
Le storie di Layla Jane e Michelle Zacchigna si aggiungono a quelle di tanti altri e tante altre. Alcune testimonianze sono già state raccontate su queste pagine. Tutte manifestano un dato particolarmente allarmante: sono in costante aumento i detransitioners, ossia le vittime dell’ideologia gender che scelgono di fare marcia indietro rispetto al “cambiamento di sesso”, riappropriandosi dell’identità profonda del proprio Sé, dalla quale hanno inizialmente presunto di potersi discostare mediante un percorso di transizione ormonale e chirurgica che invece, inseguendo una fluidità di genere illusoriamente liberante, le costringe ancora oggi dopo la detransizione a pagarne care le spese sulla propria pelle.
Articolo a firma di Fabio Piemonte già pubblicato sulla Rivista Notizie Pro Vita & Famiglia n. 119 - Giugno 2023