Di fronte ad un rigoroso richiamo all’evidenza e al principio di realtà, la replica dei sostenitori dell’ideologia gender e dei “diritti” LGBT suona più o meno così: “i bambini non hanno diritto ad avere un padre ed una madre ma qualcuno che li ami e li allevi nel migliore dei modi”.
Questa obiezione è la più aberrante, oltre che illogica, che si possa sentire. Una perfetta autofagia.
Il presupposto è la volontà di sostituire il ruolo genitoriale, la complementarietà di padre e madre, con un generico indistinto “qualcuno“. Un “qualcuno” non meglio identificato: due uomini, due donne, tre uomini, quattro donne, e così via. Perché no: un gruppo. Quante madri – o quanti padri – si possono avere? Perché fermarsi a due papà o a due mamme?
Si dà per scontato che padre e madre siano ininfluenti, poi però si pretende l’assunzione del ruolo genitoriale. Ma com’è possibile che se padre e madre sono “ininfluenti”, “inutili nell’allevare un bambino”, e “i bambini hanno solo bisogno d’affetto”, allo stesso tempo le coppie omosessuali rivendicano le stesse facoltà genitoriali delle famiglie naturali? Come abbiamo visto, infatti, per questa via si conclude che entrambi i genitori non servono affatto e che quindi i bambini possono farne tranquillamente a meno.
Ma perché i gay insistono ad auto-proclamarsi buoni genitori, se poi sostengono che i genitori non servono?
Occorre ribadire che il ruolo genitoriale non si risolve nel solo e generico “rapporto affettivo”. Il problema è relazionale, e riguarda fin dal principio la fondamentale figura psichica dell’origine. Anche una baby sitter può provare affetto per i bambini che accudisce, ma questo non fa di una tata un genitore. I bambini possono essere amati, educati, protetti, da diverse figure parentali o sociali (per esempio i fratelli maggiori, nonni, gli zii, i cugini, gli amici di famiglia, ma anche insegnanti, pediatri, allenatori, etc.), ma non basta provare affetto, amare o insegnare qualcosa ad un bambino per svolgere il ruolo di genitore.
Quello che fa di un padre e di una madre due genitori è il loro statuto ontologico, non la somma delle loro prestazioni parentali che sono in grado di erogare. Una madre resta tale anche se dal punto di vista delle funzioni pratiche è una scadente baby sitter, e non viceversa.
La vita umana è inscritta in due ordini: il dato naturale, biologico, e quello relazionale, che attinge fin dall’inizio al piano simbolico e che il bambino ha iscritto nella propria psiche, conscia e inconscia, fin dalla nascita: questi ordini in equilibrio tra loro governano lo sviluppo del bambino e portano alla manifestazione di una capacità progettuale, alla crescita di un’affettività equilibrata, costituiscono la linfa vitale del principio di individuazione.
La psicologia e l’osservazione diretta della realtà più evidente hanno da sempre sottolineato il ruolo unico e complementare delle due figure genitoriali.
Per crescere, un bambino ha bisogno sperimentare la differenza-che-genera che è all’origine della sua stessa storia: alla base della relazione con l’altro c’è l’apertura alla differenza ontologica, prima di tutto tra maschile e femminile, la conoscenza della propria identità, delle proprie origini naturali, la consapevolezza di essere persona, individuo unico ed irripetibile.
Il bambino ha necessità di sperimentare la compresenza del codice affettivo materno, improntato alla cura, alla protezione e all’accoglienza incondizionata fin dell’attaccamento intrauterino e del codice etico paterno, espresso dalla responsabilità, dalla norma, dalla spinta emancipativa.
Il bambino ha bisogno (e ha diritto) di poter conoscere la sua origine, di potersi collocare all’interno di una parentela, di riconoscere le differenze di sesso che sono all’inizio della propria storia, fonte della sua origine come individuo e nello stesso tempo dell’origine di tutti gli altri. I processi generativi che ricongiungono l’individuo all’umanità (e consentono di sentirsi inseriti pienamente nella vita sociale) sono una metafora fondamentale della vita psichica. La castrazione di quest’immagine porta il bambino – fin dall’inizio – in un terreno accidentato, in cui il riconoscimento del sé e l’accettazione della sua condizione di deprivazione sarà via via sempre più contorta.
Il piano biologico e quello simbolico-sociale sono profondamente interconnessi, come l’evidenza insegna: la madre non genera da sola, il padre nemmeno. Nessuno è figlio di due padri o di due madri. In assenza del genitore del proprio sesso, sarà molto difficile per quel bambino sviluppare la propria identità psicologica corrispondente. La psiche maschile e quella femminile sono molto diverse e l’identità complessiva si forma anche a partire dalla propria identità sessuale. Senza un’origine non c’è identità. La falsificazione surreale delle origini non può essere considerato un atto d’amore, messo in atto nell’interesse del minore. Il bambino ha bisogno di relazionarsi con chi l’ha generato.
Il fatto è che siamo di fronte ad un tentativo di stravolgimento antropologico di gravità incalcolabile, che finisce col mettere in discussione un diritto naturale di ognuno di noi, ovvero di un diritto oggettivo, inscindibile dalla persona umana, valido per tutti, in ogni tempo e in ogni luogo, e attingibile o attraverso l’osservazione della realtà e l’uso corretto della ragione.
Procedendo secondo questa linea (secondo la quale i bambini non avrebbero alcun diritto ad avere un padre e una madre ma al massimo ad amorevoli figure adulte che si prendano cura di loro) si pretende di abolire un diritto naturale del bambino: ma così facendo, si cancella di fatto un diritto naturale di tutti. Adulti compresi. Perché no?
Il paradosso e l’autofagia di questo modo di ragionare sono evidenti: se nessuno ha diritti, nemmeno gli omosessuali dovrebbero pretenderne.
Chi dà infatti all’adulto il diritto di abolire il diritto naturale di un suo simile? – peggio in quanto indifeso, più piccolo? Non si capisce infatti per quali ragioni i presunti diritti di qualcuno dovrebbero annientare i diritti oggettivi di altri esseri umani.
Una volta abolito il diritto naturale, inoltre, non resta che quello positivo, stabilito dalle leggi e quindi attribuito in base alle convinzioni della maggioranza o dei gruppi di potere dominanti (che potrebbero anche non coincidere): per questa strada – peraltro già percorsa in passato – si scivola immediatamente nello “Stato etico” che è totalitario e nel relativismo etico più devastante. Per cui non esiste un diritto certo, di nessun tipo, per nessuno, ma si può rideterminare la sfera della libertà e dei diritti a seconda di ciò che di volta in volta stabiliscono le leggi.
Alessandro Benigni