A collegare le linee guida che l’Oms si accinge a varare sulla salute transgender (seppur abbia specificato che non riguarderanno i minori) e molte altre iniziative pro Lgbt, c’è un filo rosso di cui spesso poco si parla che, invece, merita grande attenzione. Un fil rouge che, ahinoi, sembra – se verrà confermato – collegare anche il caso dell’Ospedale Careggio di Firenze, dove (pare) sono state violate importanti e obbligatorie procedure prima di somministrare la triptorelina, un bloccante della pubertà, ai bambini.
Stiamo parlando dell’«affermazione del genere». Dunque dell’approccio affermativo. Di cosa si tratta? Di un approccio alla disforia di genere che la letteratura specialistica sull’argomento delinea come basato su principi secondo cui, in estrema sintesi, le variazioni di genere non sono disturbi; vi sono infiniti percorsi di genere; ogni percorso di genere è positivo; nessun percorso è privilegiato rispetto ad un altro; le configurazioni di genere sono diverse e variegate a seconda della cultura di appartenenza; il genere rappresenta un intreccio di biologia, sviluppo, socializzazione, cultura e contesto sociale; il sesso va inteso quale costrutto fluido e non binario; i problemi psicologici concomitanti, là dove presenti, non sono correlati ad alcuna patologia interna all’individuo, bensì alle reazioni della società verso espressioni non conformi di genere.
Volendo riassumere in modo forse un po’ rozzo, possiamo sintetizzare dicendo che l’approccio dell’«affermazione del genere» è quello che guarda con favore alle istanze transgender e del cosiddetto “cambio di sesso” anche in età adolescenziale. Ora, anche mettendo fra parentesi non trascurabili criticità morali legate a tale visione antropologica – evidentemente non binaria -, ve ne sono anche parecchie di tipo scientifico che, ed è forse il dato più sorprendente, sono personalità e riviste laiche a sollevare, mettendo in luce come l’approccio dell’«affermazione del genere» non poggi affatto su basi scientifiche. Qualche esempio?
Basti prendere la linea da tempo sposata dall’Economist, che proprio a questo riguardo – e alla luce di come l’approccio affermativo in parola sia regolarmente assecondato nel mondo occidentale - ha ricordato che «la scienza medica non dovrebbe funzionare in questo modo. I trattamenti dovrebbero essere supportati da un numero crescente di prove ben studiate che soppesano i rischi e i benefici dell'intervento».
Ancora, Economist – che, giova ricordarlo, è e resta una testata progressista, e infatti condivide le critiche ai governatori repubblicani che, in America, stanno bloccando nei loro Stati il “cambio di sesso tra i minori” – dice che siamo tutti davanti ad una tragedia: «La tragedia delle buone intenzioni». Quale tragedia? «Troppi medici hanno sospeso il loro giudizio professionale», sposano il modello affermativo di genere sui minori in assenza di prove. Certo, si potrebbe sempre replicare che, dopotutto, l’Economist non è una rivista scientifica. E in effetti è così.
Lo stesso però non si può dire di un intervento uscito sul British Medical Journal, rivista fondata nel 1840 e considerata tra le quattro migliori al mondo in ambito medico. Si tratta, peraltro, di un intervento di Kamran Abbasi, docente all’Imperial College di Londra e, soprattutto, caporedattore della prestigiosa rivista, il quale ha evidenziato come «a sempre più giovani» vengano «offerti interventi medici e chirurgici per la transizione di genere, a volte aggirando qualsiasi supporto psicologico». Ed ecco che – ahinoi – tutto il mondo è Paese se pensiamo al caso scoppiato all’Ospedale Careggi.
Sempre secondo il British Medical Journal, «gran parte di questa pratica clinica è supportata dalla guida di società e associazioni mediche, ma un esame più attento di tale guida rileva che la forza delle raccomandazioni cliniche non è in linea con la forza delle prove. Il rischio di un trattamento eccessivo della disforia di genere è reale».
Il «trattamento» di cui scrive Abbasi è ovviamente quello in linea con l’approccio affermativo. Che non è guardato con scetticismo solo da costui, ma anche da suoi colleghi in Paesi come la Svezia, la Francia, Australia e Nuova Zelanda dove – come ha segnalato sempre il British Medical Journal, in un altro articolo – le società mediche hanno iniziato a prendere le distanze dalla medicalizzazione precoce dei baby trans. Già questo dovrebbe sollevare delle perplessità, che certo le linea guida dall’Oms - la cui stesura è affidata ad un panel dove la stragrande maggioranza dei membri è attivista trans o Lgbt – non dissolveranno, anzi.
Chi però ancora non fosse persuaso della pericolosità dell’approccio dell’«affermazione del genere» - lo stesso che in Inghilterra animava la clinica Tavistock, finita al centro di un noto scandalo, e che in Italia, come si diceva, l’Ospedale Careggi di Firenze potrebbe aver eccessivamente assecondato – può sempre leggersi le sconvolgenti storie dei cosiddetti detransitioners, ovvero di persone, spesso molto giovani, avviate in fretta e furia alla transizione di genere e poi pentitesi. Non solo. Costoro denunciano anche, talvolta ricorrendo pure ad azioni legali, anziché accompagnato il loro disagio iniziale è stato quasi sospinto verso l’iter di “cambio di sesso”, procurando danni anche permanenti. Le storie di questi giovani rappresentano, da sole, un valido monito a diffidare dell’approccio dell’«affermazione del genere».