La strategia Lgbt non paga. Anzi. E’ controproducente perché il massiccio e martellante indottrinamento arcobaleno porta famiglie, genitori e in generale utenti (ma anche i dipendenti) a “scappare” da chi si rendere protagonista di tale ideologia, finendo quindi per mettere a rischio la stessa vita di determinate aziende. Lo sa bene la Disney, il colosso dell’intrattenimento per bambini, che ormai da anni è sempre più Lgbt ma ora sta vivendo, fortunatamente, una stagione di costanti flop, boicottaggi, licenziamenti e critiche di massa.
Fortunatamente? Beh, forse la fortuna e il caso c’entrano poco. Non è una coincidenza, infatti, perché si può a ragione dire come sia tutto merito di genitori e famiglie e di chi (dipendenti o semplici utenti) si discosta da certi diktat Lgbtqia+. Tanto in Italia quanto all’estero, infatti, le famiglie sembrano evidentemente stufe di prestare il fianco alla propaganda gender ed esporre i loro figli a questo martellamento mediatico. Purtroppo, però - e anche qui il caso c’entra ben poco - questo bombardamento deve far riflettere e non far mai abbassare la guardia. E’ vero, infatti, che i flop della Disney sono ormai costanti e che la strategia Lgbt non paga (e ora lo vedremo nel dettaglio), ma è vero anche che la Disney - dopo i molti annunci dei suoi dirigenti di voler promuovere l’agenda Lgbtqia+ - non si è più fermata in tale direzione.
Dunque l’appello è quello - e non lo ripeteremo mai abbastanza - di stare con gli occhi aperti sempre, per difendere l’educazione e la crescita (e il divertimento!) dei nostri figli e non prestare mai il fianco a questa nuova, ma ormai già rodata, industria dell’intrattenimento Lgbt. Che ora, però, sta iniziando a scricchiolare.
Quella della Disney è una crisi confermata non solo, appunto, dall’allontanamento di famiglie, genitori e utenti, ma che emerge inesorabile anche dai bilanci e dalle grandi perdite in termini economici. Ulteriore prova, dunque, che le istanze “progressiste”, woke e pro gender non pagano e anzi fanno andare addirittura in perdita. A quasi cento anni dalla fondazione (li festeggerà nell’ottobre 2023) la Walt Disney Company arriva infatti con i rattoppi e ha già previsto una “ristrutturazione”, o almeno così viene definita dall’interno, che prevede tagli dei costi per addirittura 5,5 miliardi di dollari, eliminando 7.000 posti di lavorocirca il 4% del totale). C’è poi il capitolo, anche questo amaro, dello streaming, del quale la multinazionale ha fatto un suo punto nevralgico dopo il lancio di Disney+. Ebbene, se alla fine del 2022 contava ben 161,8 milioni, dal momento della sua fondazione (nel 2019) ad oggi le perdite si attestano intorno ai 10 miliardi di dollari. Avete capito bene, 10 miliardi!
Quando ai vertici di una grande azienda, infatti, ci sono avvicendamenti o cambiamenti significativi non è mai un caso. C’è sempre qualche ragione. E spesso è una ragione che ha a che vedere con mancati obiettivi raggiunti o addirittura dei flop. Sembra essere questo il caso di Latondra Newton, chief diversity officer e vicepresidente senior della Disney che, dopo sei anni di onorato servizio, è stata allontanata. Motivo? Per il capo delle risorse umane, Sonia Coleman, Newton deve ora «dedicarsi ad altre attività». Però altre fonti raccontano un’altra storia: quella secondo cui alla base dell’allontanamento della donna ci sono almeno due recenti e pesanti fallimenti.
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Stiamo parlando della Sirenetta e di Elemental, che ha messo a segno il peggior esordio al botteghino nella storia di casa Pixar. Entrambi, c’è da notare, erano e sono due prodotti fortemente ideologizzati e politicizzati in chiave progressista: nel primo, per la protagonista è stata scelta un’attrice di colore – cosa che ha scatenato da subito forti polemiche - nel secondo c’è il primo personaggio non binario all'interno di un film Disney Pixar. Ma Elemental non è stato certo un caso isolato, dal momento che i prodotti della celebre casa di animazione paiono da anni piegati all’agenda arcobaleno.
Prova ne siano le serie tv Star Wars Resistance (2018-2020) – i cui creatori hanno confermato che lo show ha una coppia gay – e The Owl House - Aspirante Strega (2020-2023) – la cui la protagonista Luz è stata dichiarata bisessuale dall'autrice Dana Terrace. Oppure si pensi a Toy Story 4 (2019) – prodotto insieme alla Pixar Animation Studios – in cui si mostrano due madri lesbiche che accompagnano e lasciano il figlio all'asilo; o lo stesso Lightyear - La vera storia di Buzz (sempre del mondo di Toy Story) dove si vedono due “mamme” e un bacio gay tra le due; ma anche a Onward - Oltre la Magia (2020), dove c’è il primo personaggio Lgbtqia+ ad apparire in un film Disney, la poliziotta Specter; a Red (2022) – dove si vede Priya, un personaggio queer d’inclinazione bisessuale.
Ma questi, attenzione, sono solo i casi più recenti. In Rete si dibatte di presunti contenuti queer perfino del Re Leone (1994) e di una presunta coppia omosessuale in Frozen (2013). Non è un caso che già cinque anni or sono una importante testata internazionale, il Telegraph, dedicasse un apposito servizio ai «personaggi gay» presenti nelle opere della Disney. Oltre alle istanze Lgbt la celebre casa di contenuti per bambini è attenta anche alle istanze woke e femministe, come provano per esempio il nuovo Peter Pan «antisessista» - con i «bambini perduti» che sono diventati delle ragazze – o il sostegno dato dall’azienda al sedicente movimento antirazzista Black Lives Matter. Tuttavia, è soprattutto sul fronte Lgbt che Disney – destinataria non a caso del plauso della Glaad, acronimo di Gay & Lesbian Alliance Against Defamation, sigla arcobaleno attiva nel monitoraggio dei media - sta spingendo e spingerà sempre di più.
Questo, almeno, se si deve credere a Karey Burke, presidente della Disney's General Entertainment Content, la quale in una call aziendale su Zoom, successivamente pubblicata su Twitter, ha ricordato che a breve «almeno il 50% dei» personaggi Disney dovrà essere arcobaleno. Le famiglie sono dunque avvertite, anche se in realtà dei segnali di partigianeria pro Lgbt della celebre azienda di contenuti per bambini c’erano da anni. Basti pensare al video di una conferenza tenuta nell’ormai lontano 1998 all’Università della California da Elizabeth Birch, dirigente dal 1995 al 2004 della Human Rights Campaign, la più grande organizzazione Lgbt americana.
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Ebbene in quel filmato, dopo essersi accertata che tra il pubblico non vi fossero giornalisti - e probabilmente senza sapere di essere ripresa - la Birch riferisce di uno scambio di battute avuto con Michael Eisner, amministratore delegato della Walt Disney Company per oltre vent’anni, cui lei disse che il 30 per cento dei suoi dipendenti era gay, prima d’esser da costui corretta: «Ti sbagli, Elisabeth, sono il 40 per cento». Lo ricordiamo: parliamo del 1998, dunque di un’era geologica fa rispetto ai progressi e alle conquiste Lgbt degli ultimi anni. La Cnn fissa invece addirittura al 1984 l’anno in cui in casa Disney è iniziata una metamorfosi di apertura verso il pubblico Lgbt.
Ma in realtà anche prima la produzione disneiana, come ho raccontato nel mio libro Propagande - segreti e peccati dei mass media (2017), era segnata da un tratto abbastanza caratteristico: l’assenza o la morte delle due figure genitoriali del protagonista, mamma e papà. Una cosa che, beninteso, può avere varie spiegazioni (inclusa quella del mero espediente narrativo, per favorire una crescita attraverso le difficoltà dei personaggi), ma che non può indubbiamente non suggerire una riflessione. Ad ogni modo, non devono stupire, tornando a noi, le parole di Karey Burke, che comunque sul fronte arcobaleno ha anche motivi personali per impegnarsi, dato che si presenta come «madre di due bambini queer».
C’è dunque da crederle quando dice che a breve «almeno il 50% dei» personaggi Disney dovrà essere arcobaleno. Il fatto è che tutta questa politicizzazione arcobaleno dei cartoon non sembra portare molto bene, a livello economico. Lo dimostrano non solo il licenziamento di Latondra Newton, ma anche quello di un esercito di ben 7.000 dipendenti. Se si è arrivati a tanto è anche perché il 2022 ha inflitto pesanti perdite un po’ a tutti i grandi media arcobaleno. A farlo presente, è stato una fonte di sicura autorevolezza come il Financial Times, secondo cui lo scorso anno la Walt Disney Company, ma pure Netflix e Comcast e altri giganti dei media hanno perso più di mezzo trilione di dollari di valore di mercato.
Ciò nonostante, c’è da escludere che nel breve periodo Disney – che peraltro ha sponsorizzato anche il recente Roma Pride - possa fare autocritica e smettere di fare politica attraverso i cartoon. E questo perché una volta presa una strada ideologica così potente come quella pro Lgbt essa non è affatto semplice da abbandonare, se non si vuole passare per “omofobi”, per “transfobici” o comunque per intolleranti.
Aspettiamoci, dunque, altri spot disneiani alla causa dei movimenti queer ed Lgbt. Per questo motivo è bene - come cerca di fare da tempo Pro Vita & Famiglia attraverso i suoi articoli e una petizione con oltre 43.000 firme – che le famiglie siano e restino vigili, dato che il primato educativo sui loro figli è loro e soltanto loro. E non è giusto che siano i cartoon, trattando argomenti delicatissimi in modo spesso superficiale e buonista, a trattare con i bambini quei principi e quei valori che, invece, spetta solo a mamma e papà fornire. Le famiglie sono dunque avvertite: o decidono di occuparsi di cartoni animati oppure, per riprendere una famosa frase, saranno i cartoni animati ad occuparsi di loro. E, ancor prima, dei loro figli, con contenuti che, anziché intrattenere, indottrinano. O almeno ci provano.