La professoressa lesbica –o tale per l’occasione, questo ancora non si sa in quanto le preferenze sessuali della donna attengono alla sua sfera personale e di quella categoria si è limitata a sfruttarne la popolarità che ne deriva, senza confermarla- ed il suo “mancato rinnovo” del contratto presso l’Istituto Sacro Cuore di Trento: la notizia ha superato i confini della provincia autonoma per divenire cronaca internazionale.
Il potere della strumentalizzazione non ha limiti, si potrebbe tranquillamente dire.
A prescindere dalla funzionalità che una notizia venduta in modo analogo può avere in un momento in cui a Roma sta per essere votato anche in Senato il ddl Scalfarotto ed il Consiglio Provinciale di Trento sta per discutere una legge per favorire la diffusione dell’ideologia gender nelle scuole, si deve tornare ai fatti.
Fatti concreti, non dicerie di corridoio.
Primo. La donna non è stata licenziata ma, più semplicemente, ha concluso il suo contratto di lavoro a tempo determinato.
Secondo. Nella medesima situazione vi sono altri 30 docenti dei quali nessuno parla –forse perché non si sono messi in piazza con i partiti della sinistra insultando la scuola presso cui hanno prestato servizio?
Terzo. E questo emerge dalla nota ufficiale dell’Istituto Sacro Cuore: la donna non sarebbe stata in ordine per quanto concerne la sua abilitazione ad insegnare.
Quarto. Il contratto sottoscritto dalla donna –come da tutti i docenti dell’Istituto- richiede un esplicito impegno a rispettare i particolari aspetti pedagogici che fanno di questa scuola una struttura di ispirazione cattolica. Specificità la cui tutela è anche garantita sul piano legale se si pensa alla giurisprudenza in materia che fa rilevare che se non fosse rispettata la particolare vocazione di un Istituto, non avrebbe senso alcuno riconoscerlo come alternativo, anche nell’ottica di una scelta libera e consapevole dei genitori.
Tutto il resto è “fuffa”: nessuno era presente al colloquio che vi sarebbe stato tra la Madre Superiora e la donna, come non vi sono registrazioni delle lezioni all’interno delle quali la docente avrebbe, con battute o similari, affrontato temi attinenti alla sessualità –come pare sia stato dichiarato da alcuni alunni e genitori.
Cosa che, se fosse confermata, di tutta evidenza metterebbe la donna in scacco in quanto avrebbe abusato del suo momentaneo ruolo di docente per affrontare temi estranei alle sue competenze, senza che i genitori ne siano consapevoli e contrari al progetto pedagogico della scuola.
Ma le chiacchiere stanno a zero: i dati concreti costruiscono un percorso temporale che vede un contratto scaduto per una trentina di insegnati ma solo una di questi ha reso pubblica la questione portando in piazza i soliti partiti di sinistra che hanno lanciato il proprio anatema contro l’omofobia e le scuole private –peggio ancora se di matrice cattolica.
Le Istituzioni –sia il Presidente della Provincia Ugo Rossi che il Ministro Giannini– su sollecitazione delle rispettive maggioranze e della lobby LGBT, si sono limitate ad affermare che analizzeranno quanto accaduto e se riscontreranno il profilarsi di un comportamento discriminatorio, prenderanno provvedimenti (quali? Non è dato sapere).
Sperando che vadano a rilevare esclusivamente gli aspetti concreti e documentati della questione e che le varie Istituzioni non vengano intimorite dalla chiassosa e violenta minoranza composta dalle solite sigle di categoria, vorremmo però sottolineare una cosa: al netto di tutte le considerazioni, la scuola dovrebbe essere un luogo strutturato per la formazione degli alunni e non un anonimo stipendificio dove chiunque può fare quello che crede pretendendo di essere remunerato a fine mese.
Redazione