Il becero femminismo degli anni ’70 – lo dico da donna – nasce dalla frustrazione di quelle donne che si sentono sminuite dalla loro natura e pretendono un’uguaglianza con il maschio, che non è la giusta parità, ma uno stravolgimento dell’ordine naturale – appunto – delle cose.
Eppure fin dall’antichità la cultura e la civiltà, laddove si sono evolute secondo la legge naturale, hanno riconosciuto il giusto ruolo di protagonista alla donna che come persona è stata per esempio cantata come dea o eroina anche nei miti greci (in epoca pre-cristiana, quindi).
Una evoluzione culturale in tal senso si comprende bene nel raffronto dei due grandi poemi omerici, l’Iliade e l’Odissa, che sono stati messi per iscritto nell’VIII secolo a.C., e in tale raffronto ci aiuta magistralmente la penna di Antonio Socci, con un articolo splendido apparso qualche giorno fa su Libero.
Da un raffronto tra Iliade e Odissea, e poi da una riflessione sulla figura di Ulisse, davvero politropòs, dal multiforme ingegno, l’Autore ci conduce alla riscoperta della verità naturale sull’uomo, sulla donna, sulla civiltà, sul matrimonio e sulla famiglia che oggi è troppo spesso dimenticata.
Lo riportiamo integralmente per comodità dei Lettori. Sarà davvero una buona lettura.
F.R.P.
Foto: Francesco Hayez, Ulisse alla corte di Alcinoo (1815), Museo di Capodimonte (Napoli)
Omero esalta la forza che da millenni si oppone a disgregazione e violenza, fondando la civiltà: la famiglia
E’ stato l’anno della guerra dei sessi, almeno a dar retta ai media. Uomini contro donne e viceversa: un tema che sta già nei codici genetici dell’Occidente, per esempio nei poemi omerici.
La guerra di Troia comincia perché la bella Elena, moglie del re di Sparta, Menelao, viene rapita del principe troiano Paride. Da lì si scatena il finimondo. La poveretta è innocente – accade tutto per le trame degli dèi – ma si trova sballottata da un marito-padrone all’altro e poi pure colpevolizzata per i tanti morti della criminale imbecillità maschile.
Così Euripide le fa dire: “io, che pure tanto ho sofferto, sono maledetta,/ ritenuta da tutti traditrice di mio marito/ e rea d’aver acceso una guerra tremenda per la Grecia”.
Che a quel tempo la sorte della donna fosse quella della preda, del bottino di guerra, per bestiali appetiti maschili, è chiaro anche dalla storia iniziale dell’Iliade: l’orribile vicenda di stupro di cui è vittima Criseide, schiava sessuale del bestione Agamennone che maltratta suo padre Crise, andato a riprenderla e così fa infuriare Apollo di cui Crise era sacerdote.
Apollo per vendetta diffonde la peste tra i greci e costoro, per farla finire, costringono Agamennone a lasciar libera la fanciulla. Ma lui – dovendovi rinunciare – pretende di avere in cambio Briseide, la schiava sessuale di Achille che l’aveva catturata dopo averle ucciso il marito Minete. E così si scatenò “l’ira funesta” di Achille.
Insomma – come si può vedere – delle storiacce infami che in qualche modo immortalano la condizione tragica della donna e il connotato miserabile e violento del maschio.
L’Odissea cambia tutto
Invece molto più complesse e contraddittorie sono le questioni fra uomini e donne nell’Odissea, dove il protagonista, Ulisse, è davvero la perfetta metafora dell’uomo occidentale e dell’uomo moderno e dove la donna non è più la vittima sacrificale, innocente e violata, dell’animalità maschile. Anzi, qui è la donna che sembra condurre i giochi e l’uomo deve trovare i modi per liberarsi dai suoi dolci e seducenti lacci.
Ulisse è “il personaggio che ha conosciuto maggior fortuna nell’immaginario e nella storia dell’Occidente. Tale successo” scrive Piero Boitani “è dovuto essenzialmente a due fattori: il carattere poliedrico di Ulisse e le straordinarie avventure di cui egli è protagonista”.
Non a caso la sua storia è stata continuamente riscritta nella letteratura fino al Novecento. Perché Ulisse è ciascuno di noi. Il suo carattere è la sua modernità. Infatti non si identifica con un aspetto positivo o negativo, ma è “un eroe complesso, un essere umano a tutto tondo, le cui varie sfaccettature possono essere sfruttate in un senso o nell’altro dagli artisti e dagli interpreti” (Boitani).
Ha doti di combattente e carisma di leader, ha eloquenza persuasiva e ingegno, ma nell’Iliade non sgomita per stare in primo piano. Anzi, è defilato. Però poi è proprio la sua astuzia politica – e non la forza degli energumeni – che decide la vittoria di quella guerra.
Sa usare la violenza quando serve, ma in lui prevale sempre la riflessione sugli istinti, “presta attenzione ai sentimenti altrui, preferisce l’uso della parola a quello delle armi e mira al fine della sopravvivenza e della vittoria” (Boitani).
Nell’Odissea – il poema di cui è il protagonista – emergono le due caratteristiche dominanti del suo carattere: anzitutto la curiosità, cioè la sete di conoscere (fino alla terra dei Ciclopi), la passione per la scoperta della realtà, l’amore per il mistero delle cose. E poi la nostalgia per la sua terra, per la sua donna, per le sue radici.
L’insaziabile sete dell’esploratore è una forza centrifuga che lo conduce sempre più lontano, mentre la nostalgia (che significa sofferenza del ritorno, perché egli è malato di ritorno) lo riporta verso Itaca. La sua Odissea è questa peregrinazione strana fra l’ignoto e l’amore di ciò che è noto, è suo, è la patria.
La tensione fra questi due poli diventa dilaniante quando i due poli si trovano a coincidere nella più misteriosa delle avventure della conoscenza umana: la donna. Il mistero che rifulge nel volto della donna. Perché l’universo femminile seduce Ulisse, lo porta lontano, ma anche l’amore per la sua moglie lo richiama verso Itaca.
Tornare da Penelope
Così egli conosce la fascinazione di Circe, “dea tremenda con voce umana”, colei che trasforma gli uomini in maiali. E’ l’abbrutimento della carnalità più depravata.
Poi Ulisse, pur facendosi legare – per resistere – all’albero della nave, vuole anche sperimentare l’irresistibile canto delle Sirene, cioè la seduzione della sensualità, della bellezza carnale e della conoscenza della morte.
Infine conosce l’incanto di un incontro innocente e fuggitivo con la giovane bellissima Nausicaa, la figlia di re Alcinoo, alla cui mano offertagli dal padre, però, preferisce ancora, di nuovo, il ritorno da Penelope.
Ma la “storia” più emblematica e “moderna” è quella con la ninfa Calipso, l’amante di cui Ulisse è stato per anni “prigioniero” nell’isola di Ogigia.
La dèa – diciamo una diva – è innamorata dell’eroe greco e non vuole lasciarlo andare. Ma lui, su un’isola da sogno, fra le braccia di una diva, non ne può più e vuole scappar via: “Lo trovò seduto sul lido: i suoi occhi / non erano mai asciutti di lacrime, passava la dolce vita / piangendo il ritorno, perché ormai non gli piaceva la ninfa”.
Lei lo esorta a restare, “benché voglioso di vedere / tua moglie, che tu ogni giorno desideri”. Ed è un po’ offesa: “Eppure mi vanto di non essere inferiore a lei/ per aspetto o figura, perché non è giusto/ che le mortali gareggino con le immortali per aspetto e beltà”.
Ulisse, che non vuole indispettirla, corre subito ai ripari: “Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so/ bene anche io, che la saggia Penelope/ a vederla è inferiore a te per beltà e statura:/ lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia./ Ma anche così desidero e voglio ogni giorno / giungere a casa e vedere il dì del ritorno”.
Il nome Calipso viene dal greco kalyptein, “Colei che nasconde”, e quella che la dèa promette è una felicità finta, basata sul dimenticare la vita vera, sul cogliere l’attimo fuggente e infischiarsene di tutto. Una “felicità” che lascia il cuore vuoto e l’anima insoddisfatta.
Ulisse avverte che lui è fatto per un’altra isola, l’isola del ricordo, dei volti amati come Penelope, delle radici, del ritrovamento di se stesso: la terra natìa, la patria. La terra dei padri e dei figli. Così riparte per Itaca.
L’isola desiderata
Cesare Pavese nei “Dialoghi con Leucò” ha riscritto questo episodio omerico. Rappresenta lo strazio dell’amante che dice a Ulisse: “Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi?” in fondo “immortale è chi accetta l’istante”.
Ma Ulisse non ci sta: “Quel che rimpiango” dice “è la parte viva di me stesso… Quello che cerco l’ho nel cuore, come te”.
E’ un episodio di grande suggestione e grande modernità questo dialogo dell’eroe greco che spiega alla bellissima dèa di preferire alla sua finta immortalità, le rughe di Penelope e i suoi capelli che s’imbiancano, perché sono parte di lui.
E’ un orizzonte opposto rispetto ai brutali maschi dell’Iliade. Tornando a Itaca, Ulisse dovrà combattere per riappropriarsi della sua casa e della sua terra dove ritroverà la moglie, suo figlio, suo padre, le persone amate e il vecchio cane. Però così ritrova la sua stessa identità. La sua regalità.
Dunque se la prima risposta che ci danno i poemi omerici è “guerra/violenza”, la seconda è “famiglia”.
L’alleanza alla pari, stabile e feconda fra l’uomo e la donna costruisce la città, la civiltà. Mentre la ferinità maschile produce la guerra, cioè distrugge la città e la civiltà.
Quell’alleanza – che poi è il matrimonio – è la più antica istituzione della storia umana. Nei millenni sono passati regni e imperi potentissimi e si sono dissolti. Ma la famiglia resta.
Questo diceva Omero che – secondo Péguy – è più nuovo e fresco dei giornali del mattino.
Antonio Socci
Da “Libero”, 31 dicembre 2017, oppure sul blog dell’Autore
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