Cinque anni fa, il 9 febbraio, dov’eravate? Sarebbe importante ricordarlo perché quel giorno, il 9 febbraio 2009, l’Italia veniva scossa da un evento che ancora oggi, cinque anni dopo, non cessa di dividere e far discutere: la morte di Eluana Englaro (1970 – 2009), la donna che versava in stato vegetativo da diciassette anni. Per alcuni fu il trionfale compimento di una battaglia civile, per altri il drammatico epilogo di una guerra perduta. Per tutti, in ogni caso, quel 9 febbraio rappresenta una data storica benché ancora recente, una frattura come non si registrava da tempo, a livello di opinione pubblica. Ebbene, nonostante questi cinque anni già trascorsi rimagono ancora poco noti aspetti diversi fondamentali di quello che, in termini giornalistici, è stato ribattezzato come il “caso Englaro”. Nelle righe a seguire cercheremo di rivisitarne alcuni nella speranza di offrire a tutti la possibilità, ripensando a quel 9 febbraio 2009, di farsi un’idea meno parziale e condizionata da resoconti non sempre attendibili che però circolano ancora oggi.
Come stava Eluana?
Cominciamo dall’aspetto forse più importante, e cioè le effettive condizioni di salute nelle quali versava Eluana. E’ opinione comune che la donna, dopo essere stata visitata da fior di medici, fosse stata riconosciuta da tutti – rispetto allo stato vegetativo in cui si trovava – come impossibilitata ad una anche minima ripresa. Ecco già in questa frase, verosimilmente riassuntiva del pensiero di molti, si condensano clamorose imprecisioni. Infatti non solo non è vero che la donna venne visitata da molti medici (basta leggersi le sentenze per accorgersi della presenza, ripetuta, di una sola perizia: quella del professor Carlo Alberto Defanti, incaricato dal padre di Eluana), ma non è vero neppure che coloro che la visitarono concordarono nelle conclusioni. La riprova ci viene dalla notevole divergenza tra il parere espresso dal già citato Defanti – e tenuto in assoluto ed esclusivo rilievo nel corso dei processi – rispetto a quello, per esempio, di uno specialista come il dottor Giuliano Dolce, il quale, anch’egli per mandato del padre, aveva seguito Eluana per qualche tempo registrando come lei, oltre ad aver ripreso, dopo diverso tempo, un regolare ciclo mestruale, fosse in grado di deglutire autonomamente, di variare il ritmo respiratorio a seconda degli argomenti trattati vicino a lei. Tutti elementi puntualmente trascurati dai pronunciamenti giudiziari, nei quali, come detto, compare invece la sola (e datata) perizia di Defanti, presa sempre per buona, anzi: come oro colato. Un capitolo a parte meritano le effettive condizioni di Eluana prima della morte. Ricordiamo come cinque anni fa circolarono, a tal proposito, i resoconti più scabrosi. Lo scrittore Roberto Saviano, per dire, sulle colonne di El Pais arrivò a sostenere che Eluana aveva il «viso deformato, le orecchie divenute callose e la bava che cola, un corpo senza espressione e senza capelli». Descrizione impressionante epperò frutto di pura fantasia dal momento che – da quanto si sa – l’intellettuale partenopeo non visitò mai la donna. La vide invece – e per due volte – Lucia Bellaspiga, che fra l’altro fu anche l’ultima giornalista a farle visita prima della morte. E la descrisse così: «Eluana è invecchiata poco, è rimasta ragazza davvero, anche nella realtà, non solo in quella congelata dalle foto […] i lineamenti sono poco diversi da prima, non peggiori o migliori, diversi[...] dal suo sguardo capisci che è una disabile, a occhi chiusi potrebbe essere la persona più sana del mondo […] il volto è rilassato, pieno, normale, non abbruttito». Altro che orecchie callose, bava che cola e tutto il resto. Nota bene: né l’Autore di Gomorra, né altri si sono a tutt’oggi scusati per le loro gratuite e discutibilissime opere di fantasia.
La (non) vittoria del diritto
Particolarmente curioso, di quella vicenda, fu anche il dato giuridico. Si è detto che nessuno, una volta avviata la sospensione del nutrimento che avrebbe cagionato la morte di Eluana, avrebbe potuto fare nulla dal momento che, sulla vicenda, da parte della Corte d’Appello di Milano, era stata pronunciata una «sentenza passata in giudicato». Sbagliato: nessuna sentenza passò «in giudicato»; fu invece emesso un decreto di tribunale che, come tale, non era suscettibile di «passare in giudicato» ex art. 2909 c.c., perché provvedimento di «volontaria giurisdizione». Non solo: c’erano sentenze, anche precedenti, che avevano già ribadito come i decreti dei tribunali «non sono idonei ad acquisire autorità di giudicato, nemmeno “rebus sic stantibus”, in quanto sono modificabili e revocabili non solo “ex nunc”, per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche “ex tunc”, per un riesame (di merito o di legittimità) delle ordinarie risultanze». A ben vedere anche chi ha affermato che si è trattato di una battaglia vinta sul piano del diritto non la conta giusta visto che è stato proprio il diritto, in più occasioni, a dare torto alle tesi del padre ricorrente. Per bene sei volte, infatti, i magistrati – antecedentemente alla «rivoluzionaria» sentenza della Cassazione del 16/10/2007 – negarono al tutore di Eluana il permesso di anticiparne la morte. Forse quei giudici erano tutti quanti all’oscuro della Costituzione e del citatissimo articolo 32 sul rifiuto delle terapie? Varrebbe la pena chiederselo. Senza considerare che molti sono i punti poco convincenti di quella sentenza della Cassazione del 2006. Anzitutto perché diede per certi elementi che tali non erano, come l’irreversibilità dello stato vegetativo, condizione con nette differenze cliniche da quella del coma, non è più considerata una condizione irreversibile dalla letteratura scientifica, dalla quale stanno invece emergendo prospettive interessanti in ordine ai possibili gradi di “consapevolezza” delle persone che versano in questa condizione; per non parlare degli ormai molteplici casi di “risvegli” alcuni dei quali clamorosi, come quello di Terry Wallis, avvenuto dopo 19 anni. In secondo luogo perché la Suprema Corte diede valore ad una ricostruzione “indiretta” della volontà terapeutiche di Eluana attraverso il suo «stile di vita», si collocò in netto contrasto con altri pronunciamenti coevi della Suprema Corte. Che, quanto alla manifestazione del “non consenso” a un trattamento sanitario, in ben due sentenze – la 4211/2007 [11] e la n 23676/2008 – sottolineò, mostrandosi decisamente più rigida, la necessità di «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».
E’ stata Eluana a chiedere di morire?
Alla luce di quanto ha detto e ribadito la Suprema Corte ci si può legittimamente chiedere: ci fu effettivamente, da parte di Eluana, una «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa» sulla sua volontà di non vivere a certe condizioni? «Se non posso essere quello che sono adesso, preferisco morire» – secondo il padre – furono le parole della giovane donna un anno prima del tragico incidente. Non ci sono elementi per dubitare aprioristicamente che queste parole Eluana le abbia dette, anche se rimangono degli interrogativi: quando e dove sono state pronunciate? Riflettevano appieno il suo pensiero oppure un suo personale stato d’animo, magari generato dalla notizia di uno stato di coma da parte di altri? Perché in quel caso dovremmo concludere che il pensiero di Eluana – sia pure rafforzato da quel «preferisco morire», peraltro così frequente nel lessico giovanile – fosse quello di tutti dal momento che nessuno sano di mente si augurerebbe di ritrovarsi in coma o in stato vegetativo. Come andarono dunque le cose? Non è chiaro. L’unico dato certo – anche se, guarda caso, poco ricordato – è che la stessa Corte d’Appello di Milano ha messo nero su bianco come sia stato il Beppino Englaro, e non Eluana, a richiedere la sua morte: «La. S.C. non ha ritenuto che fosse indispensabile la diretta ricostruzione di una sorta di testamento biologico effettuale di Eluana, contenente le sue precise dichiarazioni di trattamento […] ma che fosse necessario e sufficiente accertare che la richiesta di interruzione di trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia». Parole che demoliscono un’altra leggenda metropolitana: quella secondo cui il tutore, in questo caso, abbia agito «”con” l’incapace» e che, quindi, sia stata lei, Eluana, a chiedere di non essere tenuta in vita a certe condizioni. Falso. Quella richiesta non è mai stata formulata. Non da lei, almeno: e scusate se è poco.
La morte di una donna
Queste poche righe non hanno, naturalmente, la pretesa – né potrebbero averla – di dissipare tutte le numerose ambiguità di un caso che ha fatto e continuerà a far discutere. E’ bene però che d’ora in poi tutti, quanto meno, tengano presenti i tre elementi – ce ne sarebbero molti altri, ma lo spazio, si sa, è tiranno – che abbiamo qui voluto mettere a fuoco:
1.Eluana Englaro, in seguito ad «eutanasia passiva», è morta, ma sarebbe potuta tranquillamente vivere, perché, pur versando in condizioni di evidente e gravissima disabilità, la sua salute non era affatto in pericolo;
2. Si poteva anche giuridicamente impedire la sua morte dal momento che il decreto della Corte d’Appello di Milano a cui sono seguiti il ricovero ad Udine ed il decesso della donna era revocabile in qualsiasi momento alla luce, se non altro, delle decine di esposti fioccati tanto alla Procura di Milano, tanto a quella di Udine da parte di associazioni e privati cittadini e mai, di fatto, esaminati nel merito;
3. Eluana Englaro non ha mai è espresso la volontà di morire, qualora si fosse trovata a vivere in condizione di stato vegetativo. E se lo ha fatto, la giustizia italiana non è stata – nonostante i numerosi dibattimenti e le numerose sentenze emesse sulla vicenda – in grado di accertarlo.
Riepilogando, il 9 febbraio 2009 una donna innocente e gravemente disabile, in Italia, è deceduta in solitudine in seguito a disposizioni per le quali non aveva mai reso «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa», morendo – secondo quanto paventato in un appello sottoscritto da 25 fra docenti universitari e direttori di reparti di neurologia – «attraverso una lenta devastazione di tutto l’organismo». Anche se quindi sono ormai trascorsi cinque anni, anche se il tempo passa e tutto quello che volete, sinceramente: crediamo davvero che su quanto accaduto si debba tacere? Crediamo che la verità di un delitto, dopo un po’, debba essere taciuta? Crediamo veramente che nascondere la vergogna sotto il tappeto serva a non provarla più, a stare meglio? Oppure pensiamo che sì, quel che è accaduto ad Eluana debba essere ricordato minuto per minuto, come un dramma comune, come una pagina dolorosa, come l’occasione perduta e che dobbiamo riconquistare per dire che siamo tutti uguali non solo a parole, e che se sei il più debole, in una comunità, sei non l’ultimo bensì il primo a cui tutti debbono pensare, e il primo da proteggere? A voi, cari lettori, l’ardua sentenza.
Per concludere, possiamo farci guidare nella riflessione dalla poesia, che spesso aiuta a estrarre dai pensieri verità più grandi di quelle che le parole, da sole, sembrano in grado di contenere. Sono alcuni versi di un bel monologo di Davide Rondoni:
«Il totem, lo spettrale dio
dell’autodeterminazione è l’idolo
più falso che ci sia. Più astratto,
e inutile di fatto.
Non autodeterminiamo in quasi niente
– nemmneno nel colore dgli occhi
o se passare o no al semaforo
se avere o no un cuore matto –
e vogliono farci credere che valga per nascere
e morire.
La libertà di un uomo solitario,
illusorio. Un uomo astratto.
Senza pietà intorno, senza luce
del giorno nella disperazione.
La libertà non è fare una scelta
ma aderire con mille e mille
scelte alla vita che ci è data
e servire non da soli la sua rosa,
la fioritura che sia più viva
là dove la terra è più segnata».