Recentemente due importanti studi pubblicati su Nature, una delle più importanti riviste scientifiche in assoluto, stanno facendo notizia: innanzitutto, per la prima volta sono stati ottenuti dei “simil-embrioni umani” creati in laboratorio non da ovuli e spermatozoi ma da cellule staminali o della pelle riprogrammate.
Questi embrioni sono chiamati blastoidi, perché riproducono la fase dello sviluppo iniziale (di blastocisti) dell'embrione. Gli scienziati si sono affrettati a chiarire come questa scoperta abbia solo dei lati postivi, perché porterebbe a nuove ricerche e studi sui problemi di fertilità. Ma ciò non basta, perché l’altro studio pubblicato su Nature fa riferimento ad un’altra scoperta, degna dei migliori film di fantascienza e cioè: un team di ricercatori del Weizmann Institute of Science in Israele afferma di aver “coltivato” più di 1.000 embrioni di topo per sei giorni, per mezzo di un grembo artificiale.
Il dottor Jacob Hanna, uno dei ricercatori principali del progetto, spiega che si è partiti prelevando un embrione da un topo femmina e facendolo crescere per 11 giorni nell’utero artificiale. Ciascuno degli embrioni sarebbe stato collocato in una fiala riempita con uno speciale liquido, ricco di sostanze nutritive. Ma l’esperimento sarebbe ancora imperfetto e incompleto perché, come spiega Hanna, ci vogliono circa 20 giorni perché un topo cresca fino al punto in cui può sopravvivere al di fuori dell’utero, invece, l’utero artificiale creato dal Dr. Hanna e dal suo team, può sostenere i topi per un massimo di 11giorni, dopo tale termine, gli embrioni diventano troppo grandi per sopravvivere solo con le sostanze nutritive fornite dal sistema. Anche in questo caso, ci si affretta a specificare che il team non avrebbe creato il dispositivo per travalicare i limiti della natura, ma per studiare in che modo fattori come le mutazioni genetiche e le condizioni ambientali, possano influenzare la crescita di un feto nell’utero.
È impossibile ignorare, tuttavia, le evidenti implicazioni etiche e bioetiche connesse a questi studi che davvero sembrano aprire scenari nuovi e inquietanti nel campo della medicina e non solo. Per questo ne abbiamo parlato con la professoressa Giorgia Brambilla, docente di Bioetica e di Teologia morale presso Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, clinical Ethics consultant presso l’ospedale pediatrico Bambino Gesù e coordinatrice del corso di Laurea Magistrale in Scienze Religiose presso Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
Professoressa, vogliamo commentare o cercare di prevedere, alla luce di questi recenti studi, quali scenari, secondo Lei, si aprono, veramente, adesso, dal punto di vista medico?
«Credo che di fronte a queste due nuove ricerche pubblicate su “Nature”: una sugli embrioni “sintetici” e l’altra sull’utero artificiale, dobbiamo forse riflettere sulla considerazione stessa di scienza. Perché qui ci troviamo di fronte ad una medicalizzazione dell’esistenza che ha prodotto, da un lato, una sorta di delirio di onnipotenza della classe medica, dall’altro ha ingenerato nelle persone, un’aspettativa di salute e di benessere che punta dritto verso l’immortalità. Entrambe le categorie di persone, di fatto, vogliono diventare architetti o padroni assoluti del proprio destino. Dico questo perché scorrendo gli obiettivi e le modalità di queste due ricerche, in realtà, vedo che dietro la proposta di conoscere meglio le cause di infertilità o di alcune fasi dello sviluppo dell’embrione, in realtà, non c’è una prospettiva di cura per l’uomo, ma l’uomo diventa paradossalmente mezzo per la sperimentazione: un po’ la tecnica per la tecnica. Non è una cosa che va a vantaggio e a favore dell’uomo. Ma appunto l’uomo diventa strumento».
Quali le implicazioni morali? Stiamo giocando con la vita umana, a fare Dio?
«Non dimentichiamo che il concetto di medicalizzazione stesso nasce dalla sociologia, proprio per spiegare un fenomeno particolare che è quello dell’invadenza della medicina, in campi di pertinenza non scientifica. Nel senso che, oggi credo che la sfida che gli scienziati si sono dati è quella di conoscere senz’altro i processi organici, in maniera sempre più profonda, però, è inevitabile che questo muova da una visione che, in qualche modo oltrepassa il senso della medicina perché, da una prospettiva che vede l’uomo custode della vita, si passa ad una visione in cui un essere umano, svincolato da un Creatore, ricrea lui la vita. È una scienza indipendente da qualunque condizionamento. È una scienza, potremmo dire “autoreferenziale” e questo non può non mostrarci che fondamentalmente ci troviamo di fronte ad un humus perfetto per l’avvento del post umanesimo. Cioè è come se fondamentalmente ci fosse un diritto-dovere di fare pieno uso della tecnologia. Ecco perché dicevo che non è una sperimentazione, una ricerca per l’uomo, ma è la ricerca per la ricerca, solo che da questa tecnoscienza, peraltro, per nulla neutrale, come si vuole far credere, perché, per inciso, diventa un evento culturale, assumendo una concezione quasi fideistica, da questa tecnoscienza, dicevo, nasce, poi, una nuova antropologia, che è quella dell’ uomo “faber”, è quella dell’efficienza che prevale sull’essere, è quella dell’oggettivazione del corpo, tanto è quello che emerge da questa prima ricerca. Già Hans Jonas in “Tecnica medicina ed etica” aveva mostrato molto lucidamente i rischi a cui si sottopone l’uomo ogni volta che indaga indiscriminatamente sul mistero della vita. Il problema è che non possiamo abdicare ad una riflessione antropologica, per comprendere il senso dell’intervento dell’uomo, quando va a modificare, non soltanto i processi biologici del vivente, ma le sue caratteristiche specifiche. È un po’ una sperimentazione che si distacca dalla dignità della persona umana e solo che qui noi partiamo, ancora una volta, da una concezione, secondo la quale, tutto ciò che è tecnicamente possibile, non solo è eticamente accettabile, ma è doverosamente da perseguire. Già il cardinale Sgreccia, diceva, molto chiaramente, negli anni ’90 che la mentalità tecnologica che proclama l’insignificanza del limite e che quindi non ammette che ci siano dei limiti costitutivi, chiaramente, porta ad uno svuotamento assiologico della realtà, che diventa un insieme di elementi manipolabili a proprio piacimento. E questo fa emergere, di fatto, un disagio esistenziale. Cioè noi vediamo che in queste ricerche, in entrambe, quello che manca è un senso, è questo che mostra che, in realtà dietro ad ogni domanda bioetica, c’è una questione di senso che fa scattare l’allarme, dentro di noi e a cui siamo chiamati a rispondere. Nella prima ricerca noi vediamo che sornionamente ci si permette di modificare, di utilizzare dei termini fuorvianti, quasi che questi sofisticamente, permettessero un alibi agli scienziati: per cui lo chiamo “blastoide” e non piuttosto blastocisti, perché nei primi stadi non è ancora un embrione, non è ancora impiantato e allora, prima dell’impianto, posso fare ciò che voglio. Così come si è fatto tante volte, utilizzando parole come pre-embrione oppure fissando questo limite del quattordicesimo giorno e quant’altro. Allora, queste sono veramente cose che lasciano il tempo che trovano. Credo che sia più degno di nota l’utilizzo dell’accezione “sintetico”. Questo, ci fa pensare e ci fa vedere, come nella nostra società, ormai, si supera quel confine che separa le cose dalle persone, quindi gli esseri suscettibili di essere proprietà di altri da quelli che, invece, sono proprietari. Sembra un po’ di essere tornati ai tempi del diritto romano, in cui gli schiavi rientravano nella categoria delle cose. La distinzione quale sarebbe in questo caso? Quella tra feto “autentico” e feto “sintetico”, questo chiaramente senza entrare, in tutto il discorso obiettivo dello sviluppo dell’embrione, ma sicuramente mostra un distacco dalla realtà, per abbracciare, invece, il mondo sofistico delle parole. Come se avessimo un embrione umano reale e uno non reale e questo soprattutto, decontestualizzando l’embrione stesso, tra l’altro isolandolo dall’utero e quindi dalla madre e qui arriviamo all’altra ricerca che, sebbene, ora sia stata condotta sui topi, evidentemente non è così lontana, a livello concettuale, l’idea che poi si possa fare anche con gli embrioni umani, di fatto separare la vita, non solo dal suo inizio (e qui mi viene in mente la Harendt che ha sempre detto che l’uomo è iniziatore di nuovi inizi, all’interno di una logica in cui si perde invece l’irripetibilità come qualità essenziale di ogni uomo). La vita in questo caso, oltre a non essere più inizio, è anche slegata da quella relazione originaria con la madre che ormai diventa anch’essa un concetto».
E dunque questi “progressi” nel campo della ricerca medica ci mostrano una sempre maggiore spersonalizzazione e manipolazione della vita umana, sempre meno legata ad un atto d’amore e ad una relazione. Che danni può provocare questo sia nell’immaginario collettivo sia nel modo di concepire i rapporti interpersonali?
«Teniamo conto che per alcuni l’embrione umano, in particolare la blastocisti, è un agglomerato di cellule appartenenti alla specie umana che si forma, si moltiplica ma ridotto meccanicisticamente ad un fatto empiricamente osservabile. Ha della materia organica estesa, in uno spazio, in movimento, della quale si può dire, avrà un possibile sviluppo futuro. Questa è una visione che presuppone una concezione scientistico-riduzionista che ritiene il dato fattuale, quindi quello conoscibile sperimentalmente dalla scienza, sia tutto ciò che esiste. Con il paradosso, però, che, in realtà, si effettua un giudizio per cui quella realtà oggettiva in realtà non diventa più oggettiva ma diventa esclusivamente parte del mio pensiero. Per cui, specialmente nel campo della procreatica è degno di nota solo ciò che io voglio e ciò che io desidero, pensiamo all’embrione sintetico: che fine fa dopo che io lo ho osservato, lo ho guardato ecc.? Sarà degno di uno sviluppo, di un impianto? No, perché non è voluto da nessuno. E questo la dice lunga sull’approccio che queste tecniche hanno. Cioè la natura umana dell’embrione vivente non ha alcuna rilevanza sul piano antropologico, anzi, si esclude esplicitamente che sia persona. Questo fa sì che anche i valori e i diritti siano di fatto convenzionali, non hanno fondamento obiettivo, sono frutto di una scelta o di una decisione o di un desiderio e quindi, chiaramente, all’embrione resta un vuoto all’obbligatorietà per l’agire dell’uomo su di lui. Chi nega questo dato all’embrione umano e quindi chi non lo ritiene intrinsecamente degno di tutela o meritevole di protezione, seppure con toni diversi, però di fatto, ammette la possibilità di disporre della vita dell’essere umano nelle prime fasi del suo sviluppo. E ammettere questa disponibilità significa legittimare la strumentalizzazione dell’embrione fino alla produzione di embrioni al solo scopo sperimentale. È molto significativo che si insista tanto su ricerche in questa fase della vita, secondo me, perché in fondo la condizione fetale mette in evidenza la nostra strutturale vulnerabilità che è inaccettabile alla luce della considerazione della scienza, dell’orizzonte del post umano a cui accennavo all’inizio. Quella è la condizione di vita, per eccellenza, soggetta ad essere uccisa, danneggiata. Ma mette anche in evidenza un altro aspetto fondamentale dell’umano che è la nostra relazionalità, il nostro vivere in relazione con gli altri. Il fatto che il nostro vivere è sempre un “essere con”, un “crescere in”, anche dopo la nascita. Sono questi due gli elementi cruciali che ci identificano come uomini. Ed è proprio questo che accomuna le due ricerche: il rifiuto proprio dell’humanum. Questo ci richiama al fatto che la responsabilità morale si deve radicare sul valore dell’uomo in quanto tale, sulla comprensione, del senso del generare, del nascere e da questo, della salute, della malattia, del vivere del morire e quindi tutti gli interventi messi in atto per curare e correggere, ma nell’ottica del compimento dell’humanum, piuttosto che della sua svalutazione completa. Però credo che, ancora una volta, ponendoci nella prospettiva antropologica, guardando con una lente di ingrandimento queste ricerche, sono convinta che si veda proprio questo: quando ci mettiamo al posto di Dio per portare avanti questo tipo di ricerche, in realtà, anziché compiere il bene, in quella responsabilità che ci è affidata come scienziati, di fatto, veniamo inghiottiti da questo e soprattutto ne viene inghiottita la nostra umanità, per questo si parla di trans umanesimo o post umanesimo, perché stiamo cercando di superare i nostri limiti, però attraverso la negazione di ciò che siamo».