02/03/2022 di Luca Marcolivio

ESCLUSIVA – Presidente Accademia della Crusca: «“Schwa” è opzione ideologica, non linguistica»

Sembra che lo schwa non piaccia agli accademici della Crusca. Per una semplice ragione: la lingua ha una sua evoluzione naturale che non ammette forzature e tutti i tentativi di imporre nuovi linguaggi “dall’alto” sono sempre regolarmente falliti. A sostegno di questa battaglia a favore della buona scrittura e del “bel parlare”, il presidente della stessa Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, ha espresso il suo pensiero in esclusiva a Pro Vita & Famiglia.

Professor Marazzini qual è, innanzitutto, la posizione ufficiale dell’Accademia della Crusca sullo schwa?

«La nostra posizione ufficiale è quella espressa assai bene nel sito dell’Accademia della Crusca da Paolo d’Achille, che fa parte del direttivo ed è responsabile della consulenza linguistica. D’Achille afferma che, nell’italiano alto, elegante e ufficiale, schwa e asterisco sono improponibili, anche se ognuno è libero di utilizzarli nelle comunicazioni informali, ad esempio via mail».

Quindi, secondo lei questi segni grafici rappresentano una sorta di imposizione “politica” dall’alto?

«Rispondono, evidentemente, a una battaglia ideologica. Non siamo in grado di dire come andrà a finire la partita, ma faccio notare che in Italia le “riforme grafiche”, quelle poche che ci sono state, non hanno mai avuto successo. Nel caso dello schwa, tra l’altro, la riforma non è solo grafica, ma fonetica, quindi, si va su un terreno senza precedenti. Non c’è mai stata, cioè, nessuna battaglia per imporre un certo tipo di pronuncia nuova e speciale. Sulla base di queste premesse, mi sembra una proposta destinata a cadere nel vuoto. Naturalmente, chi la sostiene, in realtà, non fa un discorso di tipo linguistico, ma vanta quella che ritiene una “battaglia di civiltà”. Bisogna vedere se lo è davvero».

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Queste istanze politiche che effetti possono avere, a breve ma anche lungo termine, nel linguaggio italiano? Non pensa che si possa poi arrivare ad un punto di non ritorno dove troppe richieste, anche molto in contrasto tra loro, finirebbero per dover essere accettate?

«Difficile che questo avvenga solo per l’azione di minoranze, per quanto agguerrite. L’unica precedente riforma imposta in modo autoritario che mi viene in mente è il “voi” al posto del “lei” imposto in epoca fascista. Ovviamente la riforma fallì. In genere la lingua si muove da sola, si muove piano piano dove la porta la maggioranza dei parlanti. Esiste insomma una forma di “evoluzione democratica” della lingua, che segue regole collettive e condivise, muovendosi con una certa lentezza. La lingua è come un grande pachiderma, difficile da spostare… Per questo le avanguardie tentano talora la via dell’imposizione forzosa, in un modo o nell’altro, delle loro innovazioni. Sanno bene che, senza forzare le cose, non ce la farebbero».

Pro Vita & Famiglia ha lanciato una petizione rivolta al Ministero dell’Istruzione, affinché non adotti lo schwa, l’asterisco e altri segni grafici simili, che in pochi giorni ha raggiunto oltre 35mila firme. Secondo lei, che ricaduta potrebbe avere il loro utilizzo nella scuola?

«Quanto al Ministero dell’Istruzione, la stampa ha equivocato. Qualcuno aveva scritto che il Ministero si era “convertito” all’uso dello schwa; in realtà, lo schwa è comparso nel verbale di una singola commissione di concorso, la quale ha redatto un testo con degli schwa, nella doppia forma normale (ǝ) e lunga (3), singolare e plurale. Per reazione, il nostro collega Massimo Arcangeli (che non è accademico della Crusca) ha lanciato una petizione contro l’abuso di schwa (anch’io sono tra i firmatari). Ci è dispiaciuto che lo schwa finisse appunto in un verbale di concorso: un verbale non è un articolo giornalistico, né un testo creativo di narrativa in cui ci si diverte a condurre liberamente esperimenti linguistici. La caratteristica di un verbale deve essere l’impersonalità, l’oggettività, l’aderenza a una lingua di tipo formale, con espressioni di carattere giuridico. È la sede meno adatta per portare avanti esperimenti. Anche Gianantonio Stella, sul Corriere della Sera ha contestato la scelta compiuta da questa Commissione di concorso. Il presidente della Commissione, un professore di Organizzazione aziendale, si è difeso, invocando il fatto (assodato) che nelle lingue entrano parole nuove. Vero, ma una cosa è il lessico, altra cosa è la morfologia. Da sempre i linguisti ci spiegano che il lessico cambia, perché si affermano neologismi e forestierismi. Quando però è coinvolta la morfologia, il cambiamento linguistico è più radicale. Prendiamo la parola “pane”: nel passaggio dal latino all’italiano, è caduta la “m” dell’accusativo “panem”, ma non è cambiata la parola. Il cambiamento della morfologia, però, ha segnato il passaggio dall’una lingua all’altra, dal latino all’italiano, anche se la parola pane era la medesima. I sostenitori dello schwa, quindi, aggrediscono la struttura profonda della lingua con leggerezza, come fosse cosa da nulla. Nel caso specifico, il commissario in questione ha scritto espressioni come “di professorǝ universitario / i Provessor3”. Fra l’altro, c’è incoerenza: si usa lo schwa per il sostantivo, ma l’aggettivo e l’articolo restano identici, con la marca del maschile. Allora la domanda è: ma costoro stanno progettando una riforma della lingua, oppure giocano con la lingua, cambiando qualcosina qua e là, tanto per mandare un segnale? Si pongono allora due problemi: 1) chi opera così è incapace di distinguere tra morfologia e lessico; 2) chi opera così ha una totale noncuranza per la coerenza della lingua. Aggiungiamo un’altra cosa: nel secolo scorso, l’antropologo Claude Levi-Strauss dell’Académie Française ha sostenuto una tesi validissima, secondo la quale non è serio omologare la differenza tra maschile e femminile nella grammatica all’opposizione tra i sessi, tra uomo e donna. Tra i due campi passa una bella differenza. Ad esempio, quando parliamo di una “zebra”, la parola è femminile, anche se esistono la zebra maschio e la zebra femmina. Si dice “leone” e “leonessa”, ma non “la pantera” e “il pantero”. Sesso e lingua non sono sempre la stessa cosa. Ci sono particolarità che non hanno una spiegazione immediata e razionale, ma dimostrano che il genere grammaticale è qualcosa di diverso dal genere sessuale. Questo è l’argomento più importante, che ci permette di evitare evidenti esagerazioni, evidenti sopravalutazioni della funzione del genere grammaticale».

Uno dei timori che destano questi segni grafici è il rischio che il loro utilizzo possa appiattire linguaggio e cultura, distruggendo quelle differenze che la lingua pone in risalto e che non hanno nulla a che vedere con le discriminazioni. Lei condivide questo timore?

«Come abbiamo detto, il genere grammaticale non è l’esatto corrispondente del genere sessuale. Quanto all’omologazione, non ne vedo il rischio, perché, semplicemente, almeno per ora, per fortuna, non sono obbligato a usare né lo schwa, né l’asterisco. Posso rivolgermi ai miei allievi, sia dicendo “cari studenti” sia dicendo “cari studenti e studentesse”. Voglio vedere chi avrà il coraggio di imporre un obbligo in queste cose, anche se in alcuni tra gli innovatori cova un certo gusto autoritario. Per ora non è quindi una questione di omologazione, ma di conformismo. Alcuni abbracciano la soluzione dello schwa o dell’asterisco non perché ci credano o abbiano capito il problema, ma per quieto vivere: di fronte a minoranze aggressive, molti preferiscono vivere tranquilli. Finora, l’eventuale cambiamento ha interessato il linguaggio scritto, le e-mail, i social. Nel parlato, le cose si fanno certo più difficili. Forse anche per questo l’asterisco messo come comodo incipit in capo a lettere e inviti, nella forma car* tutt*, ha avuto più fortuna dello schwa. L’asterisco è meno macchinoso, non richiede di essere pronunciato. Ma l’asterisco altro non è se non una reticenza: è un simbolo dietro al quale posso metterci quello che voglio, senza impegnarmi troppo».

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