Nella vicenda di DJ Fabo più di un commentatore ha evidenziato la solitudine in cui è maturata la scelta del suicidio assistito (erroneamente chiamato eutanasia dai media). Lo ha richiamato, in particolare, Carlo Serini, medico specializzato in anestesia e rianimazione, che per più di un anno lo ha assistito in casa (intervista a Il Giornale del 28 febbraio).
E questa solitudine irredimibile del malato di fronte alla sofferenza, nel clamore mediatico che il caso ha sollevato, è forse l’elemento più paradossale e nello stesso tempo paradigmatico da evidenziare.
Il fatto è che oggi né la scienza medica né la società con i suoi ritmi e i suoi spazi sembrano capaci di superare la distanza in cui il malato finisce per essere confinato dalla sua stessa malattia. Distanza che appare incolmabile sul piano innanzitutto comunicativo, e che spesso porta – appunto – all’eutanasia.
La considerazione della malattia viaggia infatti su binari che non convergono.
Il medico considera la malattia secondo determinismi fisici e chimici, in cui la cura ha la funzione preponderante, se non esclusiva, di ristabilire gli equilibri fisiologici. Ma questa considerazione disancora la malattia dal riflesso soggettivo, emotivo, affettivo, irriducibile alla mera componente fisiologico-organica.
Il malato vive invece la malattia nel suo riflesso interiore, facendo fatica a integrarla in un progetto personale positivo. In una società efficientista e produttivista egli sprofonda in un ambito esperenziale che appare non solo disutile, ma incomunicabile. Nello sfacelo del corpo i ponti relazionali col mondo e con le altre persone si interrompono e resta là in un letto di marginalità.
La malattia è inqualificabile, ossia non ha qualità, semmai ha un quantum, ossia un tempo quantitativamente determinabile e, se possibile, diminuibile. Ma di per sé non qualifica, non rientra in quella che si definisce qualità della vita. È una sorta di convitato di pietra, indesiderato e, nella nostra cultura, imprevisto. Chi ne è affetto, il malato, piomba innanzitutto in una sindrome di esclusione e viene relegato con i suoi spasmi e i suoi lamenti in una sfera di insignificanza tecnica e funzionale. Il suo lamento non è determinabile e non serve al buon funzionamento del meccanismo organico. Nel silenzio assordante che lo circonda egli fa fatica a uscirne, a rompere quel cerchio che lo stringe. Il suo linguaggio non tecnico è valutato come i suoi spasmi. È un codice che ormai nessuno riconosce. Le sue reazioni smodate, incomprimibili nei protocolli medici, o lasciano indifferenti o infastidiscono.
Quanto durerà la malattia e come spartirla fra i parenti chiamati al difficile compito di assistere? In un mondo in cui tutto quello cui si assiste è spettacolo, è divertimento rapido e leggero, questo soffermarsi monocorde sulla nota stonata del dolore pare intollerabile.
Ci sono poi da valutare le spese di questo esercizio nel senso economico del rapporto costi-beneficio. Fino a che punto è utile? A che serve? Per quanto ancora?
«La società prolunga al massimo la vita dei malati ma non li aiuta né li prepara a morire», scrisse un giorno il mio prof, Aniello Montano, reduce da una malattia grave e dall’esito incerto. «All’attenzione per la sequenza studio del paziente, diagnosi e cura, all’impegno nell’uso attento di tecnologie sempre più perfezionate ed efficaci non corrisponde un’eguale attenzione per l’uomo assoggettato alle pratiche mediche» (Il guaritore ferito, 2004).
Un tempo parenti ed amici circondavano il malato e il morente e comunicavano con lui, anche solo tenendogli stretta la mano. Oggi il silenzio e l’estraneità attorniano i malati terminali negli ospedali o negli hospice. Non si dialoga più con il morente. Non lo si ascolta. Egli è un caso clinico. La sua parola non ha più autorità nell’andirivieni frenetico e asettico della corsia.
Per lui si rivendica il diritto di morire. Ma la morte può essere reclamato come un diritto?
Della vita, si afferma, nessuno può disporne, se non il soggetto stesso. Ma l’autodeterminazione del malato è uno scatolone vuoto che al suo interno nasconde una desolante disperazione. Perché «il suo essere un’esistenza intessuta all’interno di una coesistenza impongono una considerazione del soggetto singolo e della sua stessa essenza in termini meno individualistici e decisi e, comunque, non sotto il segno di un astratto e non sempre difendibile atomismo sociale» (A. Montano).
Aleggia qui un cupo e disperato utilitarismo, secondo cui la qualità della vita è l’unico parametro di valutazione, che è poi quel determinismo sotteso e contenuto nello stesso termine autodeterminazione. Ed è un determinismo che si svolge fra sé e sé (auto-) in un circuito di autoreferenzialità che rinserra il malato entro i limiti della propria solitudine, come se egli non fosse parte di un’umanità più grande e di un mistero più profondo: la vita.
Clemente Sparaco
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