24/10/2016

Fecondazione artificiale: donne illuse, ingannate, truffate

In un articolo di Jane E. Brody pubblicato dal New York Times questa settimana, Miriam Zoll ha denunciato ancora una volta la commercializzazione “ingannevole” della fecondazione artificiale, specie per le quarantenni.

Lei stessa è stata ingannata dall’industria della provetta, quando a 39 anni è stata illusa di poter avere un figlio. Si è sottoposta a quattro cicli di FIV emotivamente e fisicamente estenuanti. Per due volte ha tentato anche con ovuli acquistati da quelle che la neolingua si ostina a chiamare “donatrici”.

Dice la Zoll che il business della fecondazione artificiale sfrutta l’ingenuità e la vulnerabilità delle donne desiderose di un figlio, quando ormai l’orologio biologico dice che è troppo tardi.

La tecnologia della fecondazione artificiale in vitro ha lasciato insoddisfatte almeno 20 milioni di donne nel mondo, negli ultimi 40 anni. Le cliniche non dicono che l’80% delle gravidanze artificiali non riescono...

Per questo già da qualche anno la Zoll ha scritto un libro Cracked Open – Liberty, Fertility, and the Pursuit of High-Tech Babies (che suona in italiano più o meno così: Rivelazione dirompente: la libertà, la fertilità e la ricerca a tutti i costi dei bambini artificiali).Cracked-Open_fecondazione artificiale

Le dichiarazioni della Zoll hanno spinto la giornalista a controllare gli ultimi dati statistici federali raccolti dai Centers for Disease and Prevention da quasi 500 cliniche della fertilità americane.

A quarant’anni meno del 30 per cento delle donne fecondate artificialmente con embrioni ricavati da “uova fresche” [fa un po’ impressione leggere queste espressioni da supermercato, NdR] sono rimaste incinte e meno del 20% hanno dato alla luce bambini vivi.

Con gli embrioni congelati il tasso di successo è un po’ più alto: il 42 per cento delle riceventi sono rimaste incinte e il 30 per cento ha partorito bambini vivi.

Quanti di questi siano perfettamente sani, non si sa con certezza. C’è la grande coltre di silenzio delle donne i cui bambini nati a seguito di  fecondazione artificiale hanno avuto problemi, più o meno gravi, di salute: esse sono comprensibilmente restie a parlare di quello che probabilmente sarà un lor grande senso di colpa.

Quasi mai le cliniche allontanano potenziali clienti, qualsiasi età abbiano: per loro sono comunque bei soldi che entrano, ma è ovvio che più l’età è avanzata, maggiore è il rischio, non solo di inutilità della fecondazione artificiale, ma anche di aborto, anomalie fetali, nati morti, e complicanze ostetriche.

A tutto questo noi possiamo aggiungere i rischi notevoli che corrono le donne che danno gli ovuli, quelle che ricevono l’impianto dell’embrione e i bambini stessi concepiti in questo modo. Per non parlare degli scambi di vetrini, di embrioni e di spermatozoi... I nostri Lettori ne sono certamente al corrente. Né possiamo dimenticare le centinaia di migliaia di piccoli morti ignorati da tutti e dei nati che si scoprono a un cero punto in crisi d’identità.

L’articolo si conclude con l’ennesimo appello alla razionalità e alla realtà: i figli si fanno da giovani. Dopo i 30 anni è già tardi, anche se “tutti ormai lo fanno”.

L’attività che dovrebbe essere innanzitutto culturale, di formazione e informazione delle donne su questa delicata questione, però è ostacolata sistematicamente (pensate alle cancariate sul recente nostro Fertility Day...) dall’individualismo e dal consumismo, che vedono il far figli come un sacrificio (economico) insormontabile, dalla cultura femministeggiante, che vede la maternità come una discriminazione “di genere”, e dagli interessi economici miliardari che girano intorno alla compravendita di ovuli e di sperma e alla produzione industriale di bambini in provetta.

Redazione


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