24/07/2018

Femminista a 12 anni, nel Sessantotto...

Ero un’adolescente dodicenne quando mi scoprii femminista.

Avevo cominciato a sognare cosa avrei fatto da grande. Fin da piccola avevo desiderato studiare da maestra; ora però volevo diventare pilota d’aerei, viaggiare e fare tutte le cose da maschi. Cose semplici, intendiamoci, come non indossare il grembiule nero a scuola, non andare a messa con il velo in testa, portare i calzoncini corti, giocare a calcio e alle biglie.

Invece la tiritera era sempre la stessa: «Le bambine non fanno queste cose!». Ma io le volevo fare!

«Non sarai mica una femminista», esclamò qualcuno. Doveva trattarsi di una cosa brutta, trasgressiva, come le parole che finivano con –ista che mio papà, da bravo conservatore, usava per indicare i nemici della religione. Ma se per realizzare i miei sogni di libertà occorreva essere femminista, bene, allora io sarei stata una femminista!

Sedici anni: i cittadini svizzeri maschi votarono per decidere se concedermi il diritto di voto e di eleggibilità. Il mio spirito femminista lavorava a pieno regime in famiglia, nelle piazze del paese, a scuola. La domenica del 7 febbraio 1971 le urne sfornarono il sospirato sì. Evviva! Finalmente i maschi svizzeri si erano evoluti!

Durante gli anni preparatori alla Magistrale la mia voglia di libertà si alimentava di nuove grandi parole come «Liberté, Egalité, Fraternité» e dello slogan preferito dai miei docenti di sinistra «religione, oppio per il popolo». Mi ricordo che a religione scrissi un tema in cui sostenevo convinta che Gesù fosse il più grande comunista di tutti i tempi, in quanto difendeva i poveri, prometteva guai ai ricchi e non faceva differenze fra uomini e donne. Il docente prete mi fece notare delicatamente che Gesù non poteva essere comunista, poiché era un fervente credente, addirittura il Figlio di Dio Padre e il comunismo negava per definizione l’esistenza di Dio.

Dettaglio che mi fece riflettere; non riuscivo a concepire un mondo senza Dio. Tuttavia lo slogan marxista faceva presa su noi ragazzi, intenti a scrollarci di dosso vecchie e rigide norme morali, soprattutto in materia sessuale e di abbigliamento. La Chiesa stava perdendo terreno. Si facevano largo idee come «si può essere buoni cristiani anche senza andare a messa tutte le domeniche e si può pregare e leggere la Bibbia anche da soli, in casa», per approdare di lì a poco alla convinzione che «si poteva amarsi benissimo anche senza sposarsi in chiesa, anzi, senza sposarsi del tutto».

Strana coincidenza: agli inizi degli anni Settanta fra i miei compagni di scuola entrava in scena la droga, quella vera, non l’oppio di Marx...

Al liceo, durante le nostre contestazioni per una maggiore partecipazione degli allievi alle decisioni della scuola, spuntò una scritta pro diritto all’aborto. «Possibile che si rivendichi il diritto a uccidere?», pensai.

A Zurigo entrai per la prima volta in una libreria per le donne. Vidi una miriade di libri femministi, un concentrato di titoli, forieri di una umanità vagamente inquietante, che poco si conciliava con il “mio” femminismo. Se da un lato simpatizzavo con la letteratura che denunciava le ingiustizie di cui erano oggettivamente vittime noi donne, dall’altro ero perplessa di fronte alla radicalità di certe tematiche.

Eravamo in pochi a leggere davvero autrici come Simone de Beauvoir e Alice Schwarzer, eppure il loro pensiero influenzava tutti con frasi lapidarie del tipo «donna non si nasce, lo si diventa» oppure «la pancia è mia (e ne faccio ciò che voglio)» e finiva per impegnarci in accese dispute sui contraccettivi, l’aborto, le donne discriminate, l’omosessualità, il libero amore.

Allora non ero consapevole di essere parte di una realtà ancora in embrione, che era però già stata formulata in precedenza da influenti teorici di una battaglia culturale marxista che avrebbe cambiato radicalmente la società. Solo anni più tardi scoprii per esempio che, mentre noi studenti si discuteva ancora di parità fra uomini e donne, di tolleranza verso le persone omosessuali e di maggiore comprensione per le donne che in certi casi particolarmente difficili sceglievano di abortire, già nel 1971 Shulamith Firestone in La dialettica dei sessi aveva scritto parole di fuoco, che avrebbero incenerito la nostra idealistica visione di progresso sociale: «L’obiettivo finale della rivoluzione femminista deve essere, a differenza di quello del primo movimento femminista, non solo l’eliminazione del privilegio maschile, ma della stessa distinzione dei sessi: le differenze genitali tra gli esseri umani non avranno più alcuna importanza culturale».

Scrisse nel 1955 José Ortega y Gasset in El tema de nuestro tiempo: «Da ciò che si pensa oggi (nelle università) dipende quello che si vivrà domani sulle strade e nelle piazze».
Quanto aveva ragione!

Infatti: Marx ed Engels teorizzavano la deregolamentazione della sessualità come arma per abolire le strutture patriarcali basate sul matrimonio, la famiglia e il ruolo di donna-madre.
L’emancipazione della donna e il suo inserimento nella catena di produzione esigeva che l’educazione dei bambini passasse allo stato.

Judith Butler, una delle massime teoriche del femminismo, nella sua opera Questioni di genere addirittura supera lo stesso femminismo, considerandolo solo una tappa intermedia verso il reale traguardo del dissolvimento dell’identità sessuale tout court, perché solo allora l’individuo arriverà alla totale emancipazione dalla dittatura della natura e potrà finalmente riconfigurasi liberamente in ogni momento. Concetti come uomo e donna, matrimonio e famiglia, padre e madre, ma anche sessualità e fertilità vengono sganciati dalla loro peculiarità naturale, in quanto giustificherebbero l’egemonia dell’uomo sulla donna e dell’eterosessualità su tutte le altre numerose forme di sessualità.

Gabriele Kuby: anche lei apparteneva al movimento femminista negli anno '60
Gabriele Kuby: anche lei apparteneva al movimento femminista negli anno ’60

«Secondo la Butler, le famiglie non si costituiscono solo con il matrimonio e attraverso la discendenza, ma anche per mezzo di atti arbitrari di appartenenza momentanea. Nell’universo parallelo butleriano, i bambini non vengono concepiti ma “progettati” e prodotti con l’aiuto di tutte le possibilità tecniche disponibili, quali la donazione di sperma e di ovuli, la maternità surrogata, gli uteri artificiali e la manipolazione genetica», si legge in La rivoluzione sessuale globale. Distruzione della libertà nel nome della libertà, Sugarco, 2017, di Gabriele Kuby.

Ormai ci siamo quasi, no?

Ma tutto questo non ha più nulla a che fare con il femminismo che sognavo da giovane sessantottina in cerca di libertà.

Non ci può essere vera libertà in una visione del mondo che si è congedata dalla verità costitutiva dell’umanità, dalla creatura binaria e meravigliosamente complementare.
Sulla bandiera della Rivoluzione Francese, accanto a Liberté, Egalité, Fraternité mancava una
parola importante e manca pure su quella della Rivoluzione sessuale globale: Vérité!

Rina Ceppi-Bettosini

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