I giovani italiani sono tra i più “mammoni” del mondo. E conforta poco sapere che nel 2016 il loro numero è leggermente calato rispetto alla crescita costante degli ultimi dieci anni: i giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora a casa rimangono comunque – scrive l’Ansa – il 66%, mentre tra i 25 e i 34 anni si è sul 49%.
Queste cifre hanno ben poco da spartire con la situazione che si manifesta all’estero: in Danimarca i giovani sopra i 25 anni che vivono con i genitori sono solamente il 3,8%, mentre nella a noi vicina Francia sono il 13,4% (quasi quattro volte meno rispetto al dato italiano).
Di fronte a tutto questo sarebbe facile puntare il dito e pontificare. Appare tuttavia più serio provare a fare qualche riflessione, avendo presente la complessità della risposta a questa situazione, che coinvolge molti fattori diversi.
I giovani e l’educazione
Viviamo oggi in un mondo che ha un’educazione essenzialmente al femminile: i padri sono assenti, affermano allarmati pedagogisti e psicologi. E le conseguenze si vedono anche nel fatto che i giovani non escono più di casa, se non ad un’età avanzata.
La lettura è abbastanza chiara: la mamma (infatti si parla di “giovani mammoni”) è la figura volta alla cura, alla protezione; il padre è invece colui che ha il compito di spezzare questo legame madre-figlio e di stimolare quest’ultimo a uscire verso l’esterno, ad avventurarsi alla scoperta delle proprie capacità e del mondo circostante. Ma se la figura del padre manca, chi manda i giovani incontro alla vita? Nessuno. E quindi i giovani stanno a casa. Non solo e non tanto perché è più comodo, ma perché non ci sono adulti che li sostengono nello spiccare il volo.
I giovani: tra università (per tutti) e lavoro (precario)
Un altro aspetto fortemente problematico rispetto ai giovani d’oggi è quello dell’università e del lavoro.
Da un lato, infatti, si è diffusa l’idea (incentivata dal Governo per “raggiungere gli standard europei”...) che tutti debbano fare l’università: fatto che non solo può risultare frustrante per tanti ragazzi che magari hanno un’indole più volta al pratico e che non solo comporta costi ingenti per le famiglie, ma che ha anche contribuito a un abbassamento vertiginoso del livello di qualità delle università italiane: adesso il percorso triennale universitario (la cosiddetta “laurea breve”) altro non è che un buon liceo di qualche anno fa.
Dall’altra, tuttavia, il mondo del lavoro non riesce a offrire ai giovani (laureati e non, sia chiaro) niente altro che qualche posto sottopagato e a tempo determinato. Due fattori che, inutile dirlo, di certo non incentivano a uscire di casa e a vivere in autonomia e – ancora meno – a mettere su famiglia e fare dei figli (... ché poi, se non si riesce a pagare la rata del mutuo, cosa si fa?).
Conclusione
Insomma, l’Italia non è un Paese per giovani (e men che meno per bambini!). I dati non fatto altro che rimandarci questo dato di fatto.
Che fare, dunque? La risposta deve andare all’origine del problema: torniamo ad educare, ma in maniera seria. E torniamo a fare gli adulti, se anagraficamente lo siamo, e prendiamoci la nostra dose di responsabilità nei confronti dei giovani di oggi e di quelli di domani.
Teresa Moro
per un’informazione veritiera sulle conseguenze fisiche e psichiche dell’ aborto