Una «comunità drammaticamente spaccata al suo interno», in cui, in barba al «dialogo» e alla «tolleranza» tanto sbandierati, la gente avrà sempre più paura di esprimere un «pensiero critico». Prima ancora che una repressione giuridica, dunque, un’eventuale legge Zan rischia di determinare uno «stigma sociale», accompagnato da serie di «ripercussioni nella vita professionale, privata, comunitaria». Lo rileva nella sua memoria inviata alla Commissione Giustizia del Senato, la bioeticista Giulia Bovassi, Responsabile Dipartimento Studi Cattolici di Nazione Futura. La giovane studiosa era già intervenuta lo scorso anno, in un’audizione presso la Commissione Giustizia della Camera, avente ad oggetto proprio il ddl sull’omotransfobia.
L’equivoco di fondo, da cui poi scaturiscono tutti gli altri, è nel malinteso concetto di «discriminazione», che, circoscritto alla sua sola accezione negativa, mortifica ogni «valorizzazione della differenza». In questo modo, si innesca un «processo forzato di omologazione e normalizzazione» con «ripercussioni negative anche sul principio di accoglienza».
Come ricorda la prof.ssa Bovassi, citando Javier Hervada, «il principio di non discriminazione non vuol significare che bisogna “dare a tutti la stessa cosa” ma che bisogna “dare a ciascuno ciò che è suo”». Non solo nell’ordinamento vigente non sussistono i vuoti legislativi ipotizzati dai sostenitori del ddl Zan ma, secondo i dati ufficiali, le discriminazioni per ragioni di orientamento sessuale o di identità di genere sono state in media 26,5 all’anno nell’arco temporale che va dal 2010 al 2018. Al contrario, la proposta di legge «si pone in direzione opposta agli obiettivi di inclusione, tolleranza e non discriminazione poiché contribuisce a generare una categorizzazione tra classi più protette e altre meno tutelate».
Le conseguenze, peraltro, non sono solo legali ma anche psico-sociali. «Il messaggio percepito dai cittadini – osserva Bovassi – è di forte sfiducia nei loro confronti, a tal punto da non essere considerati sufficientemente capaci di condurre una crescita educativa e maturativa idonea per impostare una convivenza civile e rispettosa verso l’altro, anche quando scelte e stili di vita non vengono condivisi».
L’«effetto prevedibile», che già si sta sperimentando, è «una società scissa tra odiati e odiatori, rischiandone le fondamenta democratiche basate sulla garanzia dei diritti fondamentali», anche «a causa dell’indeterminatezza del crimine che qui si suppone di delineare». Difficile, infatti, promuovere un autentico «rispetto» sotto la «forza della minaccia della pena», quando, piuttosto, servirebbe «un lavoro morale e culturale mosso dalla coscienza del bene e del dovere».
Altro risvolto critico: «La criminalizzazione verso “l’odiatore” propone una lettura antropologica disumanizzante per quest’ultimo sul quale andrebbe a gravare un fronte d’odio esterno nei suoi confronti, tale da creare una “nuova” vulnerabilità dovuta ad una specie di stigma sociale le cui ripercussioni possono essere intraviste in qualunque settore o ambito i suddetti profili vadano ad operare o interagire (lavorativo, personale, scolastico, istituzionale, comunitario, ecc.)». Si finisce, allora, per suddividere la società in «fazioni» e per «rimpolpare forme di intolleranza radicale».
L’«accusa omotrasfobica», genericamente indicata dalla bozza di legge, «non ha una definizione oggettiva, univoca, comunemente accettata». Sorge spontaneo domandarsi, dunque, «quali strumenti verrebbero utilizzati per definire con esattezza l’entità di un atto omotransfobico e con quali parametri di riferimento». Gli stessi manuali di orientamento lgbt, del resto, non sono in grado di dare un inquadramento omogeneo al concetto di omofobia.
In linea generale, si colgono alcune tendenze diffuse. In primo luogo, «l’oggetto in questione si definisce per lo più nei termini di idee oppure stati d’animo interiori, transitori, probabili moventi di probabili azioni, che potrebbero verificarsi oppure no». Inevitabile, quindi, la «profilazione dell’odiatore ideale, dove si classificano le persone attorno a un concetto sul quale non vige accordo», con un conseguente «confine molto labile da decretare tra opinione e reato». Ciò rende impossibile sia dare «garanzie credibili a tutti i cittadini sull’esercizio della libertà», sia «stabilire con chiarezza chi è discriminato e chi discrimina».
C’è un confine molto «labile» e «fluido», che si individua a cavallo tra il «diritto a non essere discriminati» e il «diritto di non essere criticati». Ci troviamo allora nel terreno del «reato d’opinione» o, se si preferisce, dello «psicoreato» di orwelliana memoria, con l’evidente intrusione di un «meccanismo di sorveglianza» del «foro interno del singolo, capace di introdursi nelle motivazioni spirituali, etiche, culturali appartenenti alla sfera priva della persona». Il prezzo dell’estirpazione dell’omofobia (o presunta tale) si manifesta allora in una «logofobia»: si arriva ad avere «paura del linguaggio, del pensiero e della discussione».
A conclusione della sua riflessione, Giulia Bovassi auspica si ritorni a «guardare alla vulnerabilità come quel tratto comune della condizione umana da custodire vicendevolmente, prestando attenzione ai bisogni che essa, in maniera eterogenea, genera senza creare gerarchie di valore». È necessario, pertanto, «ritornare al significato della natura umana da cui derivano i suoi diritti fondamentali, affinché si restauri uno sguardo di autentica uguaglianza sostanziale tra le persone marginalizzando una parcellizzazione sociale in cui «alcuni esseri umani sono più uguali di altri».