Il ddl Zan con la sua portata liberticida oltre ad essere un bavaglio al dissenso apre anche ad inquietanti scenari antropologici e sociali. Ne abbiamo parlato col sociatra Sergio Bevilacqua, come scrive lui stesso di sé: “50 anni di esperienza di clinica delle società umane, e dunque aziendalista, amministrativista, economista, editore, scrittore, sociologo della famiglia, dell'arte, della comunicazione, dell'intrattenimento e del convivio.” Ha all’attivo diverse pubblicazioni: “Introduzione alla Sociatria. La nuova sociologia clinica di società e persone”, “Della fotografia. Concettuale fotografico. Attraverso gli estremi”, “Gynandromakia. L'amore di Mairéad”, “Minima editorialia. 100 meditazioni della vita offesa di lingua, letteratura ed editoria italiana”, e altre pubblicazioni di tipo più letterario. A lui abbiamo rivolto alcune domande.
Professore, innanzitutto dal punto di vista sociologico, quali scenari, secondo Lei, si aprirebbero col ddl Zan?
«La diversificazione degli orientamenti sessuali è un dato di fatto, anche se gli orientamenti non possono essere considerati in modo egualitario. Di fatto l’aggregazione amorosa standard umana è tra sesso femminile e maschile, con tutte le loro radici genetiche, l’uno verso l’altro. La psicanalisi, pur senza essere scienza esatta, mostra nella sua cinica proprio questa natura del fenomeno sessuale, prevalente ma non meccanico. Nemmeno le neuroscienze possono oggi stabilire con precisione l’andamento del desiderio sessuale verso i suoi oggetti. La psicanalisi, però, partendo dalla consapevolezza neurologica del suo fondatore Freud, attraverso un lavoro di clinica ben documentato e ancora attivissimo nei suoi ormai lontani discepoli, dice che il desiderio umano è oscillante e che ha uno suo stato stazionario caratterizzato da un’ampia moda nel magnetismo tra i due sessi differenti, ma presenta naturalmente in ognuno una serie di variazioni. Tale fenomeno della variabilità marginale dell’oggetto sessuale, insito nella natura umana, ha differente rilevanza se si manifesta in piccole realtà, in comunità di piccole dimensioni, come è stato fino al 1700, o se esplode nelle comunità di grandi dimensioni dovute alla rivoluzione industriale o addirittura all’Antropocene: infatti, se le minoranze sessuali si fanno sentire molto negli spazi metropolitani o nella comunicazione sembrano delle maggioranze. Il meccanismo delle comunicazioni di massa incide molto se queste minoranze sono ben organizzate, anche se sono obiettivamente marginali dal punto di vista statistico. Ciò non toglie che debbano essere protette e garantite nella loro espressione affettiva, proprio in quanto minoranze, ma è anche vero che il tema dell’identificazione sessuale risulta plastico, in formazione fino all’età di 20 anni circa (almeno nel maschio, ma anche nella femmina la situazione non è molto diversa, pur essendo l’età critica fino ai 14-15 anni), quando si stabilizza il processo desiderante con i suoi correlati edonistici, dovuti all’esercizio, per una via o per l’altra, dell’apparato sessuale su oggetti del desiderio dai contenuti essenzialmente mentali, di origine culturale (percettivamente: semiologica)».
La nuova legge contro l’omofobia e le discriminazione spaventa anche le femministe che hanno indirizzato un appello accorato a Zan chiedendo di rivedere il testo di legge perché permetterebbe gravi forme di discriminazioni contro le donne, derivanti dall’affermazione dell’ideologia gender, ad esempio il non poter più condannare la barbara pratica dell’utero in affitto. E’ d’accordo?
«Il corpo delle donne, come ha scritto bene la Zanardo, è oggetto di fascinazione nella civiltà occidentale, mentre in altre civiltà la sua esposizione è dosata o oscurata. La cultura occidentale guida il treno dell’economia mondiale e diffonde la “sua” cultura, ove il corpo della donna viene utilizzato in tanti campi anche opportunistici, come la pubblicità. La psicanalisi spiega bene che per il soggetto maschile, la percezione dell’immagine della donna innesca a livello pre-conscio dei progetti di desiderio, e questo è un meccanismo naturale. Fa parte di quei meccanismi che la natura ha creato per rafforzare i legami tra i due fattori della natura umana: l’uomo e la donna. Ovviamente si è creata una proliferazione del desiderio dovuta alla diffusione dell’immagine della donna, in vari ambiti della comunicazione umana e l’uomo tende ad attuare una serie di comportamenti per ottenere il risultato del soddisfacimento di questo ripetuto progetto di desiderio. L’immagine della donna si diffonde poi anche nel preconscio femminile, non necessariamente come progetto desiderante ma rafforzando quel progetto naturale di seduzione al maschio, per catturare l’attenzione e produrre il suo desiderio preconscio. Dunque, una posizione inversa rispetto all’ambito maschile, che associa all’immagine della donna percepita un progetto futuro di piacere, un mezzo piacere, che l’advertising sfrutta per indurre una preferenza d’acquisto di un prodotto rispetto a un altro. Anche per la donna (non solo occidentale…) vi è un meccanismo analogo: essa si specchia in quella immagine e ottiene una sorta di piacevole rassicurazione. Ma cosa succede allora quando questo desiderio, così diffuso, non viene abbastanza soddisfatto? Lo spiega bene la psicanalisi: in casi estremi avviene una sorta di rovesciamento, come se forzassimo una calamita a una vicinanza contraria. La prepotenza dell’immagine della donna produrrà perturbazioni sulla dinamica dell’identità, ed ecco i due diversi transessualismi, di cui però uno, quello da maschio a femmina, è oltre il 90%. Il ddl Zan, in termini clinici va interpretato in questa direzione: l’immagine della donna viene strappata dal corpo e così come nel caso della pubblicità, viene cambiato il significato di questo corpo, rendendolo non più un fattore naturale (ontico) ma culturale (ontologico). E questo che fa arrabbiare molto le femministe, e anche le donne omosessuali. Ma, aldilà della posizione loro, avviene una spaccatura pericolosissima, e molto problematica da punto di vista sociale: salta la referenzialità genetica. Nella mia attività professionale ho seguito decine di casi lgbtq e ho studiato attentamente il fenomeno sociologico sotteso. La sociatria ha una risposta precisa. Ma se continuiamo a obiettare sulla base di principi vecchi, diventa complicato trovare la giusta soluzione del problema: disporre formule troppo chiuse può soddisfare qualcuno, ma tende a non soddisfare quell’istanza naturale che sta dentro di noi, conclamata dal punto di vista neurologico, della differenza tra i sessi e delle loro flessibilità magari marginali ma che vanno rispettate, senza però lasciare che siano invadenti nel mondo della comunicazione. In sostanza, tutela dei diversi orientamenti, libertà (non arbitrio…) d’espressione, con mantenimento di una prevalente condizione privata e saggiamente regolata socialmente».
Il noto sociologo Bauman, a proposito della società liquida ha affermato: “I liquidi non possono preservare la loro forma per troppo tempo, mutano continuamente e in maniera imprevedibile. La condizione di bisogno implica questa necessità di ri-identificazione continua che genera – da una parte – attrazione e – dall’altra – dolore. Attrazione perché aperta a più possibilità. Dolore, insicurezza, perché non possiamo prevedere il futuro viviamo nell’incertezza”. Questa liquidità che caratterizza la società di oggi è arrivata ad intaccare persino l’identità sessuale, infatti sul concetto di individuo liquido si basa l’ideologia gender. Secondo Lei la concezione fluida dell’identità personale, può arrivare anche ad intaccare i legami interpersonali e perché?
«Il carattere moderatamente fluido dell’identità sessuale è un dato di fatto naturale e biologico, ma rimane marginale. La condizione di società liquida, ben battezzata dal concetto geniale di Bauman, indica lo scorrere dell’umano attraverso un flusso non facilmente gestibile, che tende a travolgere tutte le infrastrutture di collegamento tra gli umani, tutte le società umane, compresa la famiglia. Nella società liquida, in questo flusso liquido, se si getta della polvere colorata, il colore occupa tutto il flusso, ma se si va a pesare quella polvere, ci si rende conto che è una minima parte anche se lo ha colorato per intero... Nella società moderna, nelle grandi concentrazioni metropolitane, se si fa un Gaypride, ad esempio a New York, si può riempire la Fifth Avenue con persone lgbtq ecc. che provengono spesso da tutto il mondo: ciò mostra una rilevanza numerica, ma non statistica, ma che può produrre un effetto importante dal punto di vista della coscienza comune di chi osserva. Ma un conto è dare delle tutele a delle tipologie di minoranze, un conto è invece invadere una condizione di comunicazione pubblica generale: occorre proteggere soggetti meno capaci (bambini, adolescenti) di controllare gli effetti del meccanismo comunicazionale, perché i segni che appaiono in quella manifestazione possono produrre effetti dirompenti, soprattutto quando sono in formazione i fragili orientamenti sessuali, cioè fino alla prima adolescenza almeno, quando questi si consolidano, perché parliamo di condizioni psico-sessuali ancora in fieri. Il contatto percettivo di soggetti giovani con segni spesso particolarmente invasivi come quelli, diventa estremamente problematico. Ragion per cui, anche riguardo l’educazione da portare nella scuola, non si può presentare il fenomeno lgbtq ecc. come un fenomeno tra gli altri, perché attiene a uno specifico meccanismo desiderante in formazione, che potrebbe a causa di ciò deviare dal suo destino naturale prevalente, che raramente è non-eterosessuale, anche se in un regime di variabilità intrinseca. L’innesto di rappresentazioni di identità plurima in momenti formativi come quelli della prima infanzia e della seconda infanzia, fino all’adolescenza, non conviene: meglio fare intervenire la tolleranza in sede familiare, ma è di certo un errore codificare qualcosa di certo esistente me non strutturato secondo codice. Anche nel caso di una più articolata educazione sessuale si possono produrre fenomeni di alterazione nell’ontogenesi dell’identità sessuale: se ad esempio nella scuola dell’obbligo presento ai ragazzi la teoria del gender, che è una semplice teoria psico-filosofica, culturale, rispettabile in quanto tale, senza inserirla in quella che è la teoria classica, e quindi dò una prevalenza a oggetti diversi, rischio di provocare degli squilibri nella costruzione dell’impianto erotico ed edonistico della persona. Nemmeno bilanciare teoria classica (diversità genetica e psicologica) e teoria del gender funziona: esse sono in contraddizione perché la teoria del gender è una teoria culturale, e considera marginale l’aspetto biologico. Volendo rimanere fuori dal dibattito ideologico, che non attiene alla clinica sociatrica, è comunque molto problematico l’insegnamento della teoria del gender in età precedenti alla pubertà: anche fino ai 18 anni ci sono fattori importanti di assestamento dell’identità sessuale e l’elemento comunicazionale semiologico incide molto profondamente sui processi di conformazione psicologica (fino anche a 20 anni) e ormonale (12-15 anni) nel maschio. Un poco meno nella femmina, ove il periodo critico, dal punto di vista ormonale, si presenta prima della pubertà (11-14 anni). Ma, a parte la complicazione teorica e soprattutto didattico-formativa della materia, non sembra realistico produrre asimmetrie formative per maschio e femmina. Insomma, credo che sia ragionevole non far avvicinare i ragazzi prima della maggiore età, a livello istituzionale, a materie non sicure sul piano delle particolarità sessuali. Ogni famiglia penserà ai casi suoi, e così i ragazzi».