Il cervello, si sa, essendo l’organo attraverso il quale si attuano le funzioni superiori, si esercita la guida del corpo e si coordinano tutti gli altri organi, ha in sé un potenziale straordinario che per molti aspetti resta ancora sconosciuto. Il fatto stesso che, pur occupando il 2% della massa del nostro organismo ne assorbe il 20% del fabbisogno energetico, è già indicativo della sua importanza. Il bello è che più passa il tempo, più si studia l’importanza del cervello, anche dei nascituri e delle persone che giacciono in un letto d’ospedale con danni cerebrali.
In una conferenza TED Talk la scrittrice ed ex capo-redattore di Psychology Today, Annie Murphy Paul, spiega molto bene in che modo i ricercatori di un nuovo studio scientifico sulle origini della vita umana verificano lo sviluppo del cervello e l’apprendimento incipiente nel grembo materno. È noto che i nascituri sono in grado di iniziare ad ascoltare a cominciare più o meno dalla diciottesima settimana di gravidanza. Non solo imparano da quello che sentono, ma lo ricordano anche. I neonati riconoscono il suono della voce della madre che fino a quel momento avevano ascoltato solo dall’interno del suo corpo, ed esprimono una netta preferenza per questo suono. Ne abbiamo parlato sia in relazione ai nascituri che ai bambini prematuri. Sin dallo stadio fetale i bimbi riconoscono perfino i passaggi dei libri letti durante la gravidanza o frammenti di canzoni. Uno studio pubblicato l’anno scorso ha scoperto che fin dal momento della nascita, i bambini piangono nell’accento della lingua parlata dalla madre: i bambini francesi, ad esempio, piangono su una nota crescente mentre i bambini tedeschi finiscono su una nota che cade, imitando i profili melodici di quelle lingue.
Agli antipodi, in quella zona d’ombra che non è data dall’alcova del grembo materno, ma dalla prigione di un danno cerebrale, ugualmente si moltiplicano le scoperte d’interazione col mondo delle persone che sembrano essere prive di qualsiasi capacità.
Il neurologo Adrian Owen, l’autore di Into the Grey Zone, ha studiato a lungo la condizione di pazienti affetti da neuropatie gravi, che apparentemente non sono in grado di dare alcun segno della loro presenza. L’esperimento eseguito prevedeva di analizzare le reazioni del cervello alle domande da risposta “sì” o “no”, individuando le aree cerebrali attivate con il flusso sanguigno. Il colpo di genio è stato nel chiedere ai pazienti, piuttosto che rispondere mentalmente sì o no, di pensare di giocare a tennis se la risposta alla domanda era affermativa, e di pensare di spostarsi dentro la propria casa se la risposta era negativa. Ognuno di questi pensieri utilizza una parte diversa del cervello e i medici possono vedere quale parte è stata attivata quando si fanno le domande. Owen ha provato questo esperimento con centinaia di persone che si pensava non avessero alcun contatto col mondo esterno: il risultato è che il 20% dei pazienti (quasi 1 su 4) ha dimostrato di essere consapevole di ciò che gli accadeva attorno.
Insomma quelli che la cultura della morte vede come più o meno grandi masse di cellule, custodiscono in sé non solo la dignità dell’essere umano data dalla natura, ma anche alcune di quelle funzioni che sono segno dell’attuazione di quella natura. Dal concepimento alla morte l’essere umano resta sempre lo stesso, ineffabile, misterioso motore di se stesso.
Vincenzo Gubitosi
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