Riceviamo e volentieri pubblichiamo un commento di Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione, alla sentenza con cui il Consiglio di Stato in data 17 gennaio 2025 ha confermato la censura operata dal Comune di Rimini contro i manifesti di Pro Vita & Famiglia sulla pillola abortiva Ru486.
Il C.d.S. conferma il divieto di affissione dei manifesti anti aborto. Ma le ragioni non convincono
1. Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 362 pubblicata il 17 gennaio del corrente anno 2025, ha ritenuto che legittimamente il comune di Rimini avesse negato all’associazione “Pro vita & famiglia” l’autorizzazione all’affissione in pubblico di manifesti volti a scoraggiare l’uso della pillola abortiva Ru 486. In essi, unitamente all’immagine di una donna che, con una mela rossa in mano (allusiva alla nota favola di Biancaneve), era stesa a terra come morta, apparivano le scritte: “Prenderesti mai del veleno? Stop alla pillola abortiva RU486. Mette a rischio la salute e la vita della donna e uccide il figlio nel grembo”. Al Consilio di Stato l’associazione “Pro vita & famiglia” si era rivolta con atto di appello avverso la decisione del TAR, confermativa del suddetto diniego, lamentando – unitamente ad inosservanze di norme procedurali delle quali non mette conto, qui, di occuparsi – la violazione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, garantito dall’art. 21 della Costituzione e dagli artt. 9 e 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 1955. A sostegno della ritenuta infondatezza di tale doglianza il Consiglio di Stato – richiamandosi anche alla propria precedente pronuncia n. 5930 del 4 luglio 2024, pur’essa confermativa di un diniego opposto da un comune all’affissione di manifesti di “Pro vita & famiglia” – ha fatto leva, nell’essenziale, sull’assunto secondo cui, alla stregua degli indirizzi espressi dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la libertà di manifestazione del pensiero sarebbe soggetta non solo ai “limiti della violenza e dell’aggressività verbale” ma anche a quelli derivanti dalla necessaria osservanza della “<<continenza espressiva>> dei contenuti” come pure “dei principi di prudenza e precauzione volti ad evitare impatti sulla sensibilità dei fruitori del messaggio e a garantirne la chiara corrispondenza al vero”. Ragion per cui ben potrebbe vietarsi la diffusione in pubblico di messaggi che, per i loro contenuti o per le loro modalità espressive risultino “potenzialmente pregiudizievoli anche solo per una parte dei possibili fruitori” nonché “per i relativi diritti di pari rango costituzionale, quali nel caso di specie la salute e l’autodeterminazione”. Di qui la ritenuta legittimità del diniego dell’autorizzazione all’affissione, siccome adeguatamente motivato – secondo il Consiglio di Stato – sulla base del rilievo che, come già affermato dal TAR, il contenuto dei manifesti in questione “risultava oggettivamente non veritiero e suscettibile di condizionare in modo fuorviante e ingannevole (equiparandolo ad un veleno) l’utilizzo di un farmaco regolarmente approvato dalle competenti Autorità sanitarie”. Ciò dandosi per assodato che, contrariamente a quanto sostenuto da “Pro vita & famiglia”, il regolamento adottato dal comune di Rimini in materia di pubbliche affissioni in attuazione dell’allora ancora vigente art. 3 del D.L.vo n. 507/1993 – per il quale era consentito ai comuni “stabilire limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie in relazione ad esigenze di pubblico interesse – nel prevedere la sua applicabilità ad ogni tipo di comunicazione pubblicitaria, si riferisse anche ai messaggi volti a “sensibilizzare il pubblico su temi di interesse sociale, anche specifici ”, giusta quanto previsto nell’art. 46 del Codice di autodisciplina della pubblicità commerciale. Richiamo, quest’ultimo, che, in assenza di specifiche indicazioni, appare presumibilmente riferibile, in particolare, a quanto nel citato art. 46 si afferma circa la necessità che i messaggi non contengano “richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificatamente allarmismi, sentimenti di paura o di grave turbamento” e che, quando esprimono opinioni, queste siano presentate come tali e non come fatti accertati.
2. A fronte di tale apparato argomentativo va in primo luogo osservato che, se è vero che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, al pari di qualsiasi altro diritto costituzionalmente presidiato, non può essere assoluto ma è sempre necessariamente soggetto a dei limiti, altrettanto vero è che tali limiti debbono, a loro volta, trovare fondamento nella salvaguardia di altri diritti che siano anch’essi da considerare, in un modo o nell’altro, costituzionalmente presidiati. Del che mostra di essere ben consapevole lo stesso Consiglio di Stato, laddove – come si è visto – si richiama, nel caso di specie, attribuendo loro un “rango costituzionale” pari a quello della libertà di manifestazione del pensiero, al diritto alla salute ed a quello all’autodeterminazione. Il problema nasce però dal fatto che non risulta, poi, in alcun modo dimostrato quale effettiva o anche solo potenziale lesione di tali diritti potesse derivare dalla diffusione in pubblico del messaggio contenuto nei manifesti di cui è stata vietata l’affissione.
Quanto al diritto alla salute, infatti, non può certo dirsi che esso sia violato per il solo fatto che, essendo stato approvato un farmaco dalla competente autorità sanitaria, taluno, nutrendo il convincimento – poco importa se fondato o meno – che esso sia, invece, nocivo, ne sconsigli pubblicamente l’uso. E ciò tanto più in quanto si tratti, come nella specie, di un farmaco non destinato a combattere determinate patologie ma a cagionare la volontaria interruzione di un fenomeno fisiologico, quale è quello della gravidanza, indipendentemente dall’effettiva esistenza o meno di un qualsivoglia pericolo che la prosecuzione della gestazione possa presentare per la donna. Si ricordi, a quest’ultimo proposito che la pillola RU 486 è destinata ad essere usata quando la gravidanza è ancora allo stato iniziale e, quindi, sicuramente non oltre il novantesimo giorno dal suo inizio; periodo entro il quale, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 194/1978, alla donna è comunque riconosciuto il diritto di abortire presso una struttura autorizzata, a spese del servizio sanitario, pur quando il “serio pericolo per la sua salute fisica o psichica”, che ella ha comunque l’onere di “accusare”, ai sensi del precedente art. 4 della stessa legge, risulti oggettivamente inesistente.
Meno ancora, se possibile, appare poi ravvisabile alcuna violazione, anche solo potenziale, del (peraltro non meglio precisato) diritto all’ “autodeterminazione”. Non si vede, infatti, come e perché, essendo quella dell’assunzione della pillola RU 486 una semplice facoltà, liberamente esercitabile, la pubblica esortazione a non avvalersene possa costituire una indebita coartazione della volontà di chi ne è titolare, tanto da rendere necessario, per impedirla, l’intervento censorio della pubblica autorità, quando (come nel caso in esame) l’esortazione non sia accompagnata da alcuna minaccia di conseguenze lesive di cui possa rendersi autore il soggetto dal quale essa provenga ma soltanto dalla prospettazione, in negativo, degli effetti ai quali l’esercizio di quella facoltà darebbe o potrebbe dar luogo. E ciò anche nel caso in cui tale prospettazione fosse, in realtà, priva di fondamento. L’autorità comunale, infatti, non ha titolo alcuno per subordinare l’autorizzazione all’affissione di messaggi di propaganda alla condizione della rispondenza al vero di opinioni o giudizi che vi siano contenuti, salvo che essi siano tali da rendere configurabili ipotesi di reato giacchè, in tal caso, il rilascio dell’autorizzazione potrebbe addirittura dar luogo a concorso nel reato medesimo. Ma, nella specie, nessuna ipotesi di reato risulta, nella sentenza del Consiglio di Stato, neppure lontanamente evocata. Appare, quindi, del tutto inconferente, ai fini della ritenuta legittimità della mancata autorizzazione all’affissione dei manifesti in questione, il richiamo, contenuto in detta sentenza, al preteso carattere “fuorviante e ingannevole” dell’equiparazione della pillola RU486 ad un “veleno”, in contrasto – si afferma – con il fatto che trattasi di farmaco approvato dalla competente autorità sanitaria. Al che potrebbe, peraltro, aggiungersi che la parola “farmaco”, nella lingua greca, dalla quale essa è ripresa, ha come suo primo significato proprio quello di “veleno” e che, d’altra parte, ben a ragione può definirsi “veleno” una sostanza chimica che, come quella su cui è basata la pillola RU486, ha come sua destinazione esclusiva la soppressione di una vita, quale indubbiamente non può non essere ritenuta, pur se non ancora autonoma, anche quella del feto.
3. Ad analogo giudizio di inconferenza non sembra, poi, che possa sfuggire anche il richiamo, pure contenuto nella sentenza in esame, alla pretesa esigenza che nei messaggi di propaganda destinati al pubblico siano osservati i limiti della “continenza espressiva” e siano evitati “impatti sulla sensibilità dei fruitori”. Quanto alla “continenza espressiva”, infatti, sembra appena il caso di ricordare che trattasi di un requisito la cui necessità è stata sempre affermata, nella giurisprudenza della Corte di cassazione ed anche in quella della Corte europea dei diritti dell’uomo (si veda, ad esempio, la sentenza 19 giugno 2012, su ricorso n. 27306), ai soli fini della riconoscibilità, in caso di diffamazione o di lesione della “privacy”, della causa di giustificazione costituita dall’esercizio del diritto di cronaca o di critica politica. Non si vede, quindi, come esso possa assurgere al ruolo di limite generale del diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero quando non si faccia questione né di diffamazione né di altre ipotesi di reato o di illeciti civili o amministrativi e sia quindi escluso che entrino in gioco altri diritti costituzionali a tutela dei quali deve, di regola, presumersi che determinati comportamenti vengano ritenuti meritevoli di sanzione. Con riguardo, poi, alla “sensibilità dei fruitori”, appare alquanto difficile l’individuazione del parametro costituzionale sulla base del quale l’asserita necessità della sua tutela possa costituire un limite al diritto di libera manifestazione del pensiero. Non può certo ritenersi idoneo, a tal fine, il richiamo che il Consiglio di Stato ha effettuato, come si è visto, all’art. 46 del Codice di autodisciplina della pubblicità commerciale, essendo questo privo, oltre che dell’efficacia coattiva propria delle leggi o degli atti aventi forza di legge, anche di un qualsivoglia, riconoscibile addentellato, nelle parti che in precedenza si sono riportate e che sarebbero quelle suscettibili di assumere rilievo ai fini che qui interessano, con norme e principi contenuti nella costituzione o da essa ricavabili. E ciò non senza considerare che se fosse da ritenere costituzionalmente presidiata l’esigenza di non offendere la “sensibilità dei fruitori” di un qualsivoglia messaggio rivolto al pubblico, facendo sì che esso non contenga quelli che l’art. 46 del Codice di autoregolamentazione definisce “richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificatamente allarmismi, sentimenti di paura o di grave turbamento”, difficilmente potrebbero salvarsi i terrificanti messaggi a base di presagi di morte, accompagnati da immagini di teschi, ossa incrociate, polmoni devastati dal cancro ed altro ancora, che vengono fatti comparire, in ossequio alla vigente normativa, sulle confezioni delle sigarette e degli altri prodotti da fumo a base di tabacco. Prodotti dei quali, peraltro, lo Stato, pur tenuto a garantire, per quanto possibile, il diritto alla salute previsto dall’art. 32 della Costituzione, consente la fabbricazione e la libera vendita, ricavandone anche un utile costituito dal provento delle relative imposte.
D’altra parte, è proprio la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo – ai cui indirizzi il Consiglio di Stato si è, del tutto genericamente, richiamato – ad avere affermato, nella sentenza del 30 gennaio 2018 pronunciata su ricorso n. 69317/2014 Sekmadienis c. Lituania, par. 70, che il principio della libertà di espressione, costituendo “uno degli essenziali fondamenti di una società democratica ed una delle condizioni di base per il suo progresso e per l’autorealizzazione di ciascun individuo”, deve ritenersi “applicabile non soltanto ad <<informazioni>> o <<idee>> che sono favorevolmente accolte o riguardate come inoffensive o come riguardanti materie indifferenti, ma anche a quelle che offendono, scuotono o disturbano. Questo è quanto richiede il pluralismo, la tolleranza e la larghezza di vedute senza le quali non vi è <<società democratica>>. Come è previsto nell’art. 10, la libertà di espressione è soggetta ad eccezioni che debbono, tuttavia, essere interpretate rigorosamente e la necessità di ogni restrizione dev’essere provata in modo convincente”. Sulla scorta di tale principio, nel caso di specie, la Corte ha quindi ritenuto che costituisse violazione del diritto di libertà di espressione previsto dall’art. 10 della Convenzione l’aver inflitto una sanzione amministrativa ad una ditta che aveva pubblicizzato alcuni prodotti tessili con immagini e parole di cui, peraltro, si riconosceva che potevano ragionevolmente considerarsi disturbanti ed offensive per quanti professassero la religione cristiana.
E sulla stessa linea appare collocabile l’ordinanza n. 7893/2020 della Cassazione civile relativa ad un caso in cui l’autorità comunale aveva vietato l’affissione in pubblico di un manifesto realizzato dall’UAAR (Associazione atei agnostici razionalisti) nel quale figurava la parola “Dio” con la lettera iniziale sbarrata, accompagnata dalla dicitura "10 milioni di italiani vivono bene senza Dio e quando sono discriminati l'U.A.A.R. è al loro fianco)”. La Corte ritenne illegittimo il suddetto divieto – nonostante l’indubbia attitudine del messaggio contenuto nel manifesto in questione ad offendere la sensibilità dei credenti – sulla base del rilievo che esso violava il diritto di libera manifestazione del pensiero garantito dall’art. 21 della Costituzione, nell’ambito del quale doveva farsi rientrare anche quello , previsto dall’art. 19, di libera propaganda (salvi i soli limiti posti dal buon costume e dalla legge penale) di qualsiasi credo religioso, per tale dovendosi ritenere, secondo la stessa Corte, anche quello espresso dal pensiero ateo o agnostico. Potrebbe forse nutrirsi qualche riserva sul fondamento di tale ultima affermazione, ma ciò non inficerebbe, chiaramente, la validità del pur effettuato richiamo all’art. 21 della Costituzione che, da solo, sarebbe stato comunque sufficiente a giustificare la decisione adottata.
4. Sia consentito, quindi, concludere che il Consiglio di Stato, con la pronuncia in discorso, non ha reso, stavolta, un buon servizio alla giustizia ma ha, piuttosto, dato appiglio a quanti, con rassegnato cinismo, vanno di tanto in tanto sostenendo che la scritta “La legge è uguale per tutti”, campeggiante in tutte le aule giudiziarie, comprese quelle del Consiglio di Stato, andrebbe integrata con l’aggiunta delle parole: “ma non tutti sono uguali davanti alla legge”.
Pietro Dubolino
(Presid. di sez. a riposo della Corte di cassazione)