Un’esperienza non certo idilliaca, riportata dal The Guardian, ovvero quella di una donatrice di ovuli che ci mostra l’altro volto della fecondazione eterologa, non certo radioso e sorridente come i volti dei cartelloni che pubblicizzano queste “pratiche”.
È il punto di vista del “donatore”, del “mezzo” per ottenere ciò a cui alcune coppie aspirano. Un racconto in cui viene messo in evidenza proprio il ruolo di “strumento” che, nell’essere sottoposti a questi trattamenti, sostituisce quello di “persona”. E infatti il “racconto” inizia proprio con la protagonista, Ellie Houghtaling, mentre viene rianimata da alcune infermiere e si chiede chi gliel’abbia fatto fare a sottoporsi ad un trattamento così debilitante come la donazione delle ovaie.
Nell’articolo Ellie specifica che avrebbe fatto tutto questo per potersi pagare la scuola di giornalismo della Columbia University, in parte coperta da borse di studio, in parte no. Per questo motivo si sarebbe fatta allettare da un “settore in rapida crescita”, come la donazione degli ovuli. Racconta di come avrebbe chiamato, per la prima volta, la clinica per la donazione di ovuli, nel marzo 2021, convinta che avrebbe così evitato lo stress e la distrazione di un lavoro, mentre studiava, senza immaginare, però, che avrebbe dovuto affrontare ben altra fatica.
Ma soprattutto il racconto di Ellie verte sull’approccio disumano che la clinica le ha riservato. “Durante la mia ecografia – racconta - mentre guardavo il contenuto delle mie ovaie e dell'utero, il mio medico ha parlato di me all'infermiera, ma non a me” e di come la sua prima visita sia stata “impersonale”. Un approccio che le avrebbe fatto capire che “questa volta non ero il paziente, io ero il prodotto”.
Un prodotto accuratamente scansionato per evitare che venga venduto “alterato” in qualche sua parte, come racconta lei stessa: “Le analisi del sangue di quel primo appuntamento sono state inviate ad un laboratorio di test genetici, Sema4, che ha testato 283 dei miei geni contro centinaia di malattie, che andavano dalla fibrosi cistica, alla sindrome dell'X fragile, che è stata collegata all'autismo, alla malattia delle urine , fino a dei disturbi per i quali il corpo non può elaborare alcuni amminoacidi.”
Non solo, il “prodotto” in questione sarebbe stato anche sottoposto ad una seduta psicologica ad hoc, in cui il dottore avrebbe passato tutto il tempo a convincere la donna che le ovaie non sarebbero sue ma semplicemente “parte di un pool genetico più ampio, che abbracciava generazioni e posizioni geografiche.”
Insomma, un semplice legame genetico col passato.
Nel suo lungo racconto, la donna descrive anche il triste e pesante rituale delle iniezioni ormonali due volte al giorno: “Al mattino, una penna di plastica gialla e blu erogava 225 ml di Follistim, facendo clic mentre spingevo la penna verso il basso per erogare il siero refrigerato. La sera, una fiala di Menopur. Un combinato di farmaci per stimolare i follicoli nelle mie ovaie, con l'obiettivo di rilasciare tra 10-20 uova, invece, normalmente, durante l'ovulazione viene rilasciato solo un uovo. Il Ganirelix, invece, mi impediva di ovulare, dando agli ovuli la possibilità di maturare e quindi di essere raccolti prima di essere rilasciati dalle mie ovaie”.
La donna acconta anche di come le ultime fasi del processo di ovulazione forzata l’avrebbero sfinita, al punto da spingerla quasi a rinunciare all’intervento, senza però che le venisse data la possibilità di farlo.
Ellie, peraltro, cita anche una ricerca del 2016 che mette in evidenza gli effetti devastanti dell’ovulazione forzata: “Nel 2016, una nuova ricerca ha suggerito che i farmaci per la fertilità potrebbero essere collegati allo sviluppo di tumori uterini. Un rapporto del 2017 di The Donor Sibling Registry ha rilevato casi sospetti di cancro al seno in giovani donatori sani che non mostravano alcuna predisposizione genetica alla malattia, citando la terapia ormonale durante la donazione come possibile causa. La mancanza di informazioni può essere interpretata in modo fuorviante come mancanza di rischio", avverte il rapporto.
Eppure Ellie dice di aver chiesto informazioni a molte donatrici totalmente inconsapevoli di questi pericoli, totalmente e unicamente prese dai loro bisogni economici. Non solo, inconsapevoli anche di quello che, in realtà, le attendeva e le attende.
La protagonista di questa drammatica vicenda, infatti, racconta anche di come, soprattutto alcuni giorni prima dell’operazione, si sarebbe sentita totalmente in balia della clinica, sia riguardo i luoghi degli appuntamenti, totalmente fuori mano, sia riguardo le indicazioni sul dosaggio dei farmaci da assumere.
Insomma, un disinteresse crescente, man mano che il fine si stava per raggiungere. Un racconto in cui la disumanità fa da leitmotiv, a partire dalla disumanità verso sé stessi, verso la parte più preziosa di sé che viene mercificata, pur contenendo il principio della vita stesso e che continua con la crudele disumanità dei medici.