Sono sempre di più i medici e i terapeuti che si “pentono” e fanno marcia indietro sulle controverse pratiche di transizione di genere rivolte a minori e adolescenti. All’inizio del 2023 ha fatto sentire la sua voce Jamie Reed, ex case manager* al Centro per la transizione dei minori della Washington University (Wu) presso il St. Louis Children’s Hospital. Inizialmente raccontata dal giornale online The Free Press, la sua sconvolgente testimonianza è poi finita sui principali media americani e non solo.
*Il Case Manager è la figura referente che accompagna la famiglia nel percorso di presa in carico che parte dalla compilazione della scheda dell’Analisi preliminare e termina con la definizione del Patto per l’inclusione sociale. Generalmente è un assistente sociale, ma è tuttavia nelle facoltà dei territori darsi una organizzazione diversa, ad esempio affidando ad operatori diversi la gestione delle differenti fasi della valutazione e della definizione del Patto, quindi o mantenendo il processo all’interno dello stesso servizio sociale professionale o, in alternativa, con il coinvolgimento di altri operatori sociali.
Jamie Reed, una donna di 42 anni che si definisce queer e politicamente di sinistra, ha lavorato al Wu Transgender center dal 2018 al 2022 come responsabile dell’accoglienza e supervisione dei pazienti, occupandosi di circa 1.000 «giovani angosciati, la maggior parte dei quali ha ricevuto ormoni forieri di conseguenze devastanti per la vita, come la sterilità». Reed racconta che, appena arrivata al Centro, è rimasta subito colpita «dalla mancanza di protocolli formali per i trattamenti» di presunta disforia di genere e spiega che medici e terapeuti condividevano la linea secondo cui quanto prima i bambini con disforia vengono trattati, tanto maggiore è l’angoscia che si può risparmiare loro in futuro, finché non si è resa conto che si stavano «danneggiando in modo permanente i pazienti vulnerabili» venendo meno «al giuramento che facciamo di “non nuocere”».
Nuove pazienti per effetto di “contagio sociale”
Reed riferisce che all’inizio riceveva una decina di chiamate al mese da parte dei cosiddetti casi “tradizionali”: bambini o ragazzi maschi che volevano apparire o essere come una femmina, ma entro poco tempo la situazione è completamente cambiata: le chiamate sono arrivate a una cinquantina al mese e «circa il 70% dei nuovi pazienti erano ragazze; a volte gruppi di ragazze provenienti dalla stessa scuola superiore».
Queste giovani «avevano molte comorbilità: depressione, ansia, Adhd [disturbo da deficit di attenzione/iperattività, NdR], disturbi alimentari, obesità» e «molte avevano ricevuto una diagnosi di autismo o presentavano sintomi simili all’autismo». Spesso sostenevano di avere dei disturbi (sindrome di Tourette, tic, personalità multiple) che in realtà non avevano.
In privato i medici riconoscevano che queste errate autodiagnosi erano una manifestazione di contagio sociale, così come avviene con i disturbi alimentari o i suicidi, ma quando Reed ha fatto presente che anche i problemi di genere delle ragazze che affluivano al centro potevano essere frutto di contagio sociale, i dottori le hanno risposto che «l’identità di genere rifletteva qualcosa di innato».
Ottenere la transizione al Centro era estremamente semplice: bastava «una lettera di approvazione di un terapeuta, di solito raccomandato da noi, che le ragazze dovevano vedere giusto una o due volte per ottenere il via libera» e poi «una visita con l’endocrinologo per la prescrizione del testosterone».
Effetti collaterali e permanenti
Gli effetti profondi e permanenti del testosterone su una donna si manifestano nel giro di pochi mesi: «La voce si abbassa, spuntano i peli della barba, il grasso corporeo si ridistribuisce, il desiderio sessuale esplode, aumenta l’aggressività e l’umore può diventare imprevedibile». I pazienti erano informati degli effetti collaterali della transizione, inclusa la sterilità, ma ben presto Reed si è resa conto che gli adolescenti non erano in grado di capire appieno alla loro età cosa significa rimanere sterili: «La maggior parte di questi adolescenti non era ancora attiva sessualmente. Non avevano idea di come sarebbero stati da grandi. Eppure, per la loro trasformazione permanente sono bastati uno o due colloqui brevi con un terapeuta».
Reed riporta vari esempi di ragazzi che hanno subito gravi danni, come il caso di un quindicenne al quale è stata prescritta la biculatamide allo scopo di bloccarne la pubertà e femminizzarne il corpo. La biculatamide è un farmaco antitumorale, usato contro il cancro alla prostata, con una lunga lista di effetti collaterali e questo ragazzo ne ha sperimentato uno: la tossicità epatica. In seguito la madre ha inviato loro un’e-mail in cui diceva «che eravamo fortunati che la sua famiglia non fosse il genere di persone che fa causa».
Un altro esempio riguarda una ragazza di 17 anni che stava assumendo testosterone e telefonò al Centro dicendo che stava avendo un’emorragia vaginale. Si è poi scoperto che aveva avuto un rapporto sessuale e, poiché il testosterone assottiglia i tessuti vaginali, le si era lacerato il condotto della vagina: «È stato necessario sedarla e sottoporla a intervento chirurgico per riparare il danno. Non è stato l’unico caso di lacerazione vaginale di cui siamo venuti a conoscenza».
Vi sono poi ragazze che sono infastidite dall’effetto del testosterone sul clitoride, che cresce e si ingrandisce fino a prendere le sembianze di un micropene. Reed racconta che una paziente l’ha chiamata perché il clitoride ingrossato si estendeva al di sotto della vulva e sfregando sui jeans le si irritava in modo doloroso: «Le ho consigliato di procurarsi le guaine compressive usate dagli uomini che vogliono apparire come donne. Al termine della telefonata ho pensato: “Caspita, abbiamo rovinato questa ragazza”». L’ex manager osserva che esistono casi rari di bambini che nascono con genitali atipici che richiedono trattamenti sofisticati e compassione, ma «le cliniche come quella in cui ho lavorato stanno creando un’intera coorte di ragazzi con genitali atipici».
Tra i casi più tristi a cui abbia assistito vi è quello di una ragazza che, come molti dei suoi pazienti, proveniva da una famiglia instabile, viveva in condizioni precarie e aveva un passato di tossicodipendenza. Il Centro aveva iniziato a somministrarle ormoni all’età di 16 anni e a 18 si era sottoposta a una doppia mastectomia. Tre mesi dopo aveva chiamato l’ufficio del chirurgo per dire che avrebbe ripreso il nome di nascita e i pronomi femminili (she, her) poi, con il cuore a pezzi, aveva detto che rivoleva il suo seno. In seguito Reed ha saputo che era incinta e «ovviamente, non potrà mai allattare suo figlio».
Di detransitioners che decidevano di non proseguire con la transizione o che chiedevano di tornare al genere originario, Reed ha iniziato a vederne sempre di più, ma quando ha espresso la necessità di tenere traccia dei casi per cercare di comprendere i motivi dei dietrofront, un medico le rispose chiedendole «perché mai avrebbe dovuto dedicare del tempo a qualcuno che non era più un suo paziente».
Il Wu Transgender center contro i genitori dissenzienti
Un altro aspetto inquietante del Centro - spiega Reed - era la mancata considerazione per i diritti dei genitori: «Nel Missouri è necessario il consenso di un solo genitore per il trattamento del figlio, ma quando un genitore era contrario il Centro si schierava sempre dalla parte del genitore consenziente».
Un caso emblematico, avvenuto nel 2019, riguarda una disputa tra genitori relativa alla somministrazione di bloccanti della pubertà alla figlia di undici anni. Durante il primo colloquio con la madre, Reed apprese che lei e il marito stavano divorziando; la donna descriveva la figlia come «una specie di maschiaccio» ed era convinta che fosse trans, ma quando Reed approfondì la questione chiedendole se avesse adottato un nome maschile, se fosse angosciata per il suo corpo e se affermava di sentirsi maschio, la madre rispose di no; così le spiegò che la ragazzina non aveva i requisiti per sottoporsi al trattamento.
Un mese dopo la madre la richiamò dicendole che ora la figlia usava un nome maschile, che era angosciata per il suo corpo e che voleva fare la transizione. Questa volta madre e figlia ottennero un appuntamento durante il quale gli operatori stabilirono che fosse trans e le prescrissero un bloccante della pubertà.
Il padre non era assolutamente d’accordo, diceva che tutto ciò proveniva dalla madre, così ne seguì una battaglia legale per la custodia della figlia. Andò a finire che «al processo, il nostro medico testimoniò a sostegno della transizione e il giudice si pronunciò a favore della madre».
«O sali a bordo o te ne vai»
La sua contrarietà per le politiche del Centro divennero via via sempre più frequenti fino al culmine nell’estate 2022 quando, durante una riunione con l’équipe, i medici le dissero che doveva finirla «di mettere in discussione la “medicina e la scienza” così come la loro competenza» e un amministratore le pose l’aut aut: «O sali a bordo o te ne vai». Senza fare alcun clamore, nel novembre dello stesso anno Reed lasciò il Transgender center, ma quando poco dopo scoprì che Rachel Levine - pediatra transgender e sottosegretario alla Sanità Usa – stava sostenendo che «le cliniche stanno procedendo con la massima prudenza e che nessun bambino americano sta ricevendo farmaci od ormoni per la disforia di genere che non dovrebbe ricevere», non ce l’ha più fatta a «tenere la testa bassa».
Ha così iniziato a raccontare ovunque quello che aveva visto nei quattro anni di lavoro al Centro e poi «ho portato le mie considerazioni e documenti al procuratore generale del Missouri. Lui è repubblicano e io sono progressista, ma la sicurezza dei bambini non può essere materia di scontro politico». Esponendosi in questo modo, Reed è consapevole di stare mettendo a rischio il suo futuro professionale, «ma in coscienza non posso tacere, perché ciò che sta accadendo a decine di bambini è spaventoso, moralmente e dal punto di vista medico».
Articolo a firma di Lorenza Perfori già pubblicato sulla Rivista Notizie Pro Vita & Famiglia n. 119 - Giugno 2023