In Irlanda, dopo la vittoria del referendum sul matrimonio gay nel 2015 e quella al «Sì» all’aborto poche settimane fa, si pensa già ai prossimi passi (verso il baratro).
Tra i più pericolosi di certo c’è la ventilata volontà di aprire all’eutanasia, secondo il ragionamento esplicitato dall’editorialista Ian O’Doherty, sull’Irish Independent: «La nostra popolazione invecchia, il sistema sanitario non funziona e siamo davanti a una bomba a orologeria demografica che non farà che peggiorare. “Il mio corpo, la mia scelta” è uno slogan che non si applica solo all’aborto, ma a ciascuno di noi».
Il ministro junior John Halligan sta già lavorando a un progetto di legge che sarà presentato a Dáil da un governo a suo nome. Non è chiaro se il disegno di legge sancirebbe l’eutanasia o solo il suicidio assistito. Ad ogni modo, addio all’Irlanda cattolica: oramai i (dis)valori del secolo la fanno da padrone.
Ma c’è un altro aspetto sul quale si stanno accendendo i riflettori. Ad esserne portatrici sono le femministe, galvanizzate dall’aver “conquistato” il diritto ad abortire, che ora hanno puntato il dito sull’articolo 41, comma 2 della Costituzione, il quale recita: «In particular, the State recognises that by her life within the home, woman gives to the State a support without which the common good cannot be achieved» («In particolare, lo Stato riconosce che con la sua vita all’interno della casa, la donna dà allo Stato un sostegno senza il quale non è possibile raggiungere il bene comune».
Questa parte della Costituzione, secondo le femministe, è discriminatoria perché relegherebbe le donne entro le mura domestiche. Il che, stando a un’interpretazione letterale, non è vero: semplicemente si riconosce e riafferma pubblicamente, quale valore, il “lavoro” che le donne compiono in casa e nell’educazione dei figli. Ma questo non significa, come invece viene sostenuto, che le donne non possano o non debbano lavorare fuori casa e coltivare i propri talenti, anzi! Con questo comma della Costituzione si pongono infatti solide garanzie in entrambi i sensi: se una donna desidera stare a casa e fare la moglie e la mamma, lo Stato non le recrimina nulla e la sostiene (quante donne vorrebbero, quando i figli sono piccoli, stare a casa e non dover fare i salti mortali per conciliare tutto, con sensi di colpa enormi?); invece, se una donna vuole lavorare, è libera di farlo e le sarà però garantito un sostegno nel momento in cui le sue priorità cambieranno, magari per la nascita di un bambino.
Perché le femministe non riconoscono come valorizzazione personale il fatto di collaborare, in maniera diversa da quella maschile, al bene comune? Forse crescere un figlio non è un impegno gravoso e nel contempo importantissimo per tutta la società? In tal senso, a lamentarsi dovrebbero essere piuttosto gli uomini: anche loro, e sempre più, danno un contributo fondamentale nella gestione casalinga e nell’educazione dei figli. Ma, si sa, quando a vincere è l’invidia per quello che fa l’altro e non il riconoscimento del dato di realtà (uomini e donne sono diversi), succede anche questo...
Un’altra riflessione, a margine: non è che il tentativo di modificare, o annullare, questa parte della Costituzione si muove anche nell’ottica di favorire una liquefazione della differenza sessuale binaria e nell’orbita di un annullamento del ruolo genitoriale di mamma e papà? Si tratta di un’illazione, certo, ma di questi tempi a pensar male spesso ci si azzecca...
Teresa Moro