19/11/2021 di Maria Rachele Ruiu

La carriera Alias e il caso di “Geremia”. Perché serve un confronto e non un derby sulla pelle dei ragazzi

Nata donna, si sente uomo: come accogliere la storia della studentessa del liceo scientifico Ulisse Dini di Pisa, che sta tenendo banco in questi giorni?

Al netto di qualsiasi strumentalizzazione politica e ideologica vorremmo poterci occupare del suo benessere, difenderla, supportarla, ascoltarla, accoglierla, senza alcuna condizione. Noi e la comunità educante tutta.

Ma troviamo necessario anche dire senza mezzi termini che usare il caso di “Geremia” per imporre “come regola” la carriera alias lede evidentemente il diritto suo e dei nostri figli di essere protetti e accompagnati: cercare di automatizzare un processo delicato e puntuale come quello di essere chiamato con il nome di elezione, infatti, non significa altro se non inseguire ideologie e politiche decisamente dannose, sulla pelle di questi ragazzi.

Ideologie e politiche che si palesano quando invece di lasciare spazio ad una discussione scientifica sana, anche di confronto serrato, si dividono le persone in “cattivi”, contrari alla carriera alias, e “buoni”, favorevoli. In questi giorni il liceo di questa ragazza è occupato e gli studenti hanno promesso che faranno classi di formazione per spiegare, appunto, la carriera alias.

Noi ci auguriamo che si trovi spazio per ricordare che la carriera alias, così come presentata, cioè standardizzata e attivata con la sola richiesta dello studente e della famiglia, e imposta a tutta la scuola, è in linea con le teorie affermative, figlie della famigerata teoria di genere che intende superare il binarismo sessuale maschile e femminile fino ad arrivare a più identità di genere fluide o creative.

Vogliamo soprattutto sottolineare che questo approccio “scientifico”, che vorrebbe confermare il sentito dei pazienti, si sta rivelando un grande esperimento fallito: i Paesi pionieri, infatti, lo stanno via via abbandonando, a causa dei numerosi ragazzi e ragazze che da adulti decidono di tornare indietro dalla transizione con numerose ferite, alcune delle quali indelebili. La Finlandia, per esempio, lo scorso anno ha rivisto le linee guida, dando priorità alle cure psicologiche; in Arkansas, negli Usa, invece, è illegale la prescrizione di farmaci bloccanti della pubertà e ormoni cross-sex ai ragazzini, e anche in Svezia non si prescrivono più bloccanti ai minorenni (gli stessi bloccanti, tanto sponsorizzati e accolti con grida di gioia nel nostro Paese, che possono causare danni alle ossa, danni cognitivi, malattie cardiache, ictus e sterilità e che non hanno nessun beneficio sulla salute mentale dei ragazzi, anzi!).

Poche settimane fa, inoltre, due massimi esperti nel campo della medicina transgender, il dottor Marci Bowers, specialista in vaginoplastica di fama mondiale che ha operato la star dei reality televisivi come Jazz Jennings, e il dottor Erica Anderson, psicologo clinico presso la Child and Adolescent Gender Clinic dell'Università della California di San Francisco, hanno messo in dubbio gli ormoni e le linee guida, soprattutto quelle per i più piccoli. Nel corso della loro carriera entrambi hanno visto migliaia di pazienti, entrambi sono membri del consiglio di amministrazione della World Professional Association for Transgender Health (WPATH), l'organizzazione che stabilisce gli standard mondiali per le cure mediche transgender. Ed entrambi sono donne transgender.

O ancora, speriamo che si possa trovare spazio per raccontare il movimento dei detransitioner e la storia paradigmatica di Keira Bell, che ha vinto la sua battaglia contro il sistema sanitario inglese per non essere stata opportunamente accompagnata, se non verso la transizione: “Quando sono approdata alla clinica Tavistock – ha raccontato - ero sicura di avere bisogno della transizione. Era una certezza assoluta, limpida, di quelle tipiche dell’adolescenza. In realtà – ha ammesso - ero una ragazza con un brutto rapporto con il proprio corpo, vittima di abbandono da parte dei genitori, isolata dagli altri, ansiosa, depressa, incapace di accettare il suo orientamento sessuale. [..]avevo così tanti problemi che mi sembrava rassicurante convincermi di averne uno solo da risolvere”.

Speriamo che ci sia spazio per il dolore e le ferite aggiunte a ragazzi e ragazze già sofferenti, proprio come ha testimoniato sempre la Bell: Mi sono resa conto che stavo tornando a essere Keira quando, finalmente, sono riuscita a piangere di nuovo. E avevo un sacco di motivi per farlo. Le conseguenze di quello che mi è successo sono state gravi: probabile infertilità, amputazione del seno, impossibilità di allattare, genitali atrofizzati, cambio della voce, peluria sul viso. Quando mi hanno visitata alla clinica Tavistock avevo così tanti problemi che mi sembrava rassicurante convincermi di averne uno solo da risolvere, ovvero quello di essere un uomo intrappolato in un corpo femminile. Era compito dei professionisti che si stavano occupando di me considerare tutte le mie comorbidità invece di assecondarmi nella mia ingenua convinzione che per farmi sentire meglio sarebbero bastati gli ormoni e la chirurgia.”

E speriamo, infine, che questo esercizio di civiltà e scienza possa trovare posto anche nel dibattito pubblico e politico, quello degli adulti: è ora di lasciare il derby fuori la porta e occuparci e preoccuparci seriamente del benessere di bambini e ragazzi, anche e soprattutto quando significa dire “no”.

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