03/11/2018

La nuova frontiera della “bioetica”: la gravidanza condivisa

Bliss e Ashleigh Coulter sono due donne omosessuali “sposate” che vivono in Texas e che detengono un primato: rappresentano la prima coppia di donne che ha sperimentato, con successo, una gravidanza condivisa. Si tratta della nuova frontiera della “bioemotica”, ossia l’applicazione della bioetica guidata dai sentimenti (e che di etico non ha un bel niente). Cos’è accaduto? Le due donne, entrambe coinvolte nella naturale vocazione alla maternità, ed entrambe impossibilitate a realizzarla, dato il legame omosessuale che per natura esclude qualunque apertura alla fecondità, hanno espresso il desiderio (ecco la bioemotica) di sperimentare entrambe – ancora – la gravidanza del figlio che avrebbero “ordinato” mediante fecondazione artificiale.

 Così è stato. Si sono rivolte alla clinica Care di Dallas, dove è stata loro proposta la procedura di reciprocal effortless in vitro fertilization: una modalità di fecondazione artificiale che in una prima fase utilizza la donna come incubatrice naturale. Gli ovuli sono prelevati e inseriti insieme allo sperma del “donatore” all’interno di una specie di capsula per il concepimento, chiamata invocell, che viene inserita nell’utero per facilitare l’incontro dei gameti. Avvenuta la fecondazione, si passa al trasferimento embrionale: dopo cinque giorni dalla fecondazione, il concepito, allo stadio di blastocisti, e quindi non ancora impiantato nell’utero della “prima madre”, è trasferito nell’utero della “seconda”. In questo modo sia Bliss che Ashleigh hanno avuto un coinvolgimento attivo nella gestazione che ha portato alla nascita, il 4 giugno 2018, di Stetson.

Quando l’invocell è stata rimossa dal corpo di Bliss (maggiore di età e quindi meno indicata per portare avanti la gravidanza), e gli embrioni “migliori” sono stati congelati in attesa che Ashleigh fosse pronta a riceverli nel proprio utero. La procedura è particolarmente delicata, e infatti prima d’ora non si era registrato alcun caso di successo, e non perché non ci avessero provato. Ora, cosa ci comunica questa vicenda? Che tutto questo impegno tecnico-medico non è stato messo in atto per salvare una vita umana o lenire le sofferenze di un malato, ma per dare a una donna “l’ebbrezza” della gravidanza, cioè di quello stato per lei più naturale, ma che tale non si presentava per le “particolari circostanze” del caso.

Non si trattava qui neanche di sopperire alla ovvia infecondità di una coppia lesbica tramite una (ormai) ordinaria procedura di fecondazione eterologa. Siamo andati anche oltre il “diritto al figlio” per approdare al “diritto alla gravidanza” inteso come stato esperienziale/emotivo. E ciò, per giunta, in una cornice contra naturam: eccoci al paradosso per cui le persone possono vivere una vita che contraddice radicalmente l’ordine naturale ma al tempo stesso chiedere di beneficiare di quelle esperienze che la natura riserva a chi rispetta, appunto, l’ordine da essa imposto. Una società in cui è possibile tutto ciò non è più nemmeno liquida, ma gassosa, evanescente, come il diritto che la regola e la (finta) morale che la pervade.

Vincenzo Gubitosi

Fonte: Wired

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