“Non è vero che le ho minacciate. Cercavo semplicemente di convincerle a salvare vite umane. Sono una cattolica praticante, ma la mia decisione deriva unicamente da motivi di coscienza e non religiosi”. E’ quanto ha detto ai giornali l’infermiera dell’Ospedale di Voghera (Pavia) che nei giorni scorsi aveva negato per due volte l’accesso al reparto di ginecologia ad altrettante ragazze che volevano farsi prescrivere la pillola del giorno dopo .
L’Azienda ospedaliera della provincia di Pavia ha diffuso una nota: “L’Azienda ospedaliera della Provincia di Pavia – si legge – a seguito delle notizie riportate in questi giorni da numerosi organi di stampa, al fine di chiarire la vicenda, dopo aver avviato una procedura di indagine interna per chiarire l’accaduto ed eventuali responsabilità, comunica che ha accolto le dimissioni volontarie dell’infermiera al centro della vicenda, formalizzate in data 6 ottobre 2014. Nel rispetto delle norme contrattuali, le dimissioni andranno a decorrere dal 1° gennaio 2015″.
L’infermiera non ha voluto commentare le dimissioni. Un gesto di certo inusuale di questi tempi: dove è estremamente raro assistere a comportamenti che intendono affermare principi legati alla salvezza di vite umane.
Il “Fatto Quotidiano”, il 7 ottobre, ha titolato: “ Pillola del giorno dopo : l’infermiera di Voghera ha commesso illecito penale”. “Nel nostro codice penale – si leggeva – all’art. 328, è previsto un reato intitolato: ‘Rifiuto di atti d’ufficio’, per cui “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni [….] di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.” Si aggiungeva che “In forza di questa norma, la Cassazione, lo scorso anno, ha condannato un medico che, mentre era in servizio di guardia medica in un reparto di ostetricia e ginecologia, chiamata ad assistere una paziente che era stata sottoposta ad intervento di interruzione volontaria di gravidanza mediante somministrazione farmacologica, si era rifiutata di visitarla e di assisterla in quanto obiettrice di coscienza, nonostante le richieste di intervento dell’ostetrica e i successivi ordini di servizio impartiti dal primario e dal direttore sanitario, costringendo il primario stesso a recarsi in ospedale per intervenire d’urgenza. (…). Rammentano in maniera preziosa i Supremi Giudici, che il c.d. diritto all’obiezione ‘trova il suo limite nella tutela della salute della donna, tanto è vero che l’art. 9, comma 5, della legge citata esclude ogni operatività all’obiezione di coscienza nei casi in cui l’intervento del medico obiettore sia ‘indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo’. Il diritto dell’obiettore affievolisce, fino a scomparire di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria salute.”
In questo caso non c’era alcun pericolo di vita per le donne.
Senza scomodare i Supremi Giudici, quel giornale avrebbe anche solo potuto ricordare che il 4 febbraio di quest’anno l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha ottenuto la correzione del foglietto illustrativo del Levonorgestrel, dichiarando che non si tratta di un anti annidante ma solo di un inibitore dell’ovulazione, rendendolo prescrivibile anche dal medico di famiglia.
Ma tacendo il fatto che – se il concepimento è avvenuto – la pillola impedisce l’annidamento e quindi è abortiva.
Per la “coscienza” dell’infermiera dell’Ospedale di Voghera – al di là di quel che pensano i giudici “creativi” della Suprema Corte, l’Aifa e quant’altri – vale come “consolazione” del suo comportamento quanto sosteneva il 31 ottobre del 2000, in una sua dichiarazione, la Pontificia Accademia per la Vita: “La donna che ricorre a questo tipo di pillola, lo fa nel timore di poter essere in periodo fecondo e perciò con l’intenzione di provocare l’espulsione dell’ eventuale neoconcepito; oltretutto, sarebbe utopico pensare che una donna, trovandosi nelle condizioni di voler ricorrere ad una contraccezione d’emergenza, abbia la possibilità di conoscere con esattezza e tempestività la sua attuale condizione di fertilità. Decidere di utilizzare la dizione ‘ovulo fecondato’ per indicare le primissime fasi dello sviluppo embrionale, non può portare in alcun modo a creare artificialmente una discriminazione di valore tra momenti diversi dello sviluppo di un medesimo individuo umano. In altre parole, se può essere utile, per motivi di descrizione scientifica, distinguere con termini convenzionali (ovulo fecondato, embrione, feto, etc.) differenti momenti di un unico processo di crescita, non può mai essere lecito decidere arbitrariamente che l’individuo umano abbia maggiore o minor valore (con conseguente fluttuazione del dovere alla sua tutela) a seconda dello stadio di sviluppo in cui si trova.
Pertanto, risulta chiaramente che l’acclarata azione “antinidatoria” della pillola del giorno dopo , in realtà, nient’altro è se non un aborto realizzato con mezzi chimici. Non è coerente intellettualmente, né giustificabile scientificamente, affermare che non si tratti della stessa cosa. Del resto, appare abbastanza chiaro che l’intenzione di chi chiede o propone l’uso di detta pillola è finalizzata direttamente all’interruzione di una eventuale gravidanza in atto, esattamente come nel caso dell’aborto. La gravidanza, infatti, comincia dalla fecondazione e non già dall’impianto della blastocisti nella parete uterina, come invece si tenta di suggerire implicitamente. Ne consegue che, da un punto di vista etico, la stessa illiceità assoluta di procedere a pratiche abortive sussiste anche per la diffusione, la prescrizione e l’assunzione della pillola del giorno dopo. Ne sono moralmente responsabili anche tutti coloro che, condividendone l’intenzione o meno, cooperassero direttamente con una tale procedura. (…)”.
Danilo Quinto