05/02/2021 di Manuela Antonacci

La questione pro life Usa. Perché l’approccio progressista è incompleto e perché bisogna prendere esempio dal cattolicesimo

La questione pro life negli Stati Uniti è da sempre piuttosto accesa, basti pensare all’esistenza di numerose realtà private che ogni anno si impegnano socialmente ed economicamente per questa causa. Una questione che torna puntualmente in auge con l’arrivo di un nuovo presidente, come sta accadendo in queste prime settimane di mandato di Joe Biden.

Non bisogna però fare l’errore di pensare che sotto la dicitura “pro-life” ricadano solo ed esclusivamente le istanze anti aborto, spesso a cuore dei Repubblicani o comunque delle fazioni più conservatrici. Come noi di Pro Vita & Famiglia sosteniamo da sempre, infatti, la vita umana è un diritto inalienabile che va difeso dall’inizio alla fine e in tutte le sue sfaccettature.

“Questo porta ad una divisione politica anche negli Usa”, come spiega Domenico Musso, avvocato, esperto in diritto canonico e civile, da anni giurista attivo negli Stati Uniti e in Italia. Una divisione che sostanzialmente si ha “tra le anime più conservatrici che tendono a evidenziare come pro life principalmente la questione della difesa della vita nascente, dunque del nascituro e, all’opposto, le anime più progressiste che si schierano aspramente contro tale visione, rilevando che l’essere pro life significherebbe più che essere anti-aborto. In questo modo, i progressisti fanno passare l’aborto in secondo piano, arrivando a volte ad escluderlo dalla discussione, e concentrano la loro attenzione soprattutto sulle questioni inerenti alla pena di morte ed alla difesa della qualità generale della vita. Potremmo sintetizzare dicendo che da un lato si pone l’accento maggiormente sulla vita in fieri, e dall’altro si valuta esclusivamente la vita dell’essere umano già formato ed autonomo”.

“Sebbene sia apprezzabile e doveroso l’impegno a tutela della vita e contro la pena di morte – spiega l’avvocato Musso - è palese che le frange più progressiste tendano a dimenticare che l’approccio corretto dovrebbe essere quello che prendere in analisi tutte le questioni del diritto alla vita, nessuna esclusa”. In altre parole, va data attenzione a tutte quelle attività che ledono la dignità e violino la vita dell’essere umano: dall’aborto, alla pena di morte, fino ad arrivare all’eutanasia.

Su questo tema entra in campo anche la Chiesa “con i suoi principi non negoziabili – sottolinea Musso – tra i quali appunto la difesa della vita dal concepimento fino alla morte naturale. Principi che molti prendono in esame citando Benedetto XVI, ma in realtà sono valori insiti nella Chiesa fin dalle sue origini”.

Va fatta però una precisazione sulla pena di morte e sul ruolo della Chiesa cattolica, non perché l’approccio pro life debba essere solo ed esclusivamente confessionale, ma perché storicamente la politica Usa non rimane indifferente alle spinte che arrivano da qualsiasi frangia religiosa o think tank, comunità cattolica compresa. Sotto questo punto di vista “fino a qualche anno fa – spiega l’avvocato Musso – la Dottrina tradizionale prevedeva la pena di morte come un rimedio estremo, rifacendosi anche al Vecchio e al Nuovo Testamento e agli insegnamenti di San Paolo”. Un approccio che è stato superato dalla stessa Chiesa. Papa Francesco infatti – racconta il giurista – meno di due anni fa ha eliminato dal Catechismo della Chiesa Cattolica un passaggio del n. 2267 che prevedeva in rarissimi casi l’ammissibilità della pena di morte”.

Una concezione “che ha le sue basi  - spiega Musso - anche nella tradizione del pensiero Giusnaturalistico di ispirazione cristiana, che in Italia ha avuto illustri esponenti tra giuristi e filosofi del diritto, secondo il quale la pena di morte neghi definitivamente la possibilità di redenzione, ed in un’ottica di dono e perdono limiterebbe dunque la possibilità al reo di pentirsi e convertirsi”. Una concezione che, dunque, si buon collegare a qualsiasi approccio, religiosa o laico che sia.

Se dunque la vita umana di un detenuto o comunque di una persona adulta viene tutelata così tanto sia dalla politica che dalle istanze religiose, ancor di più rientra nella categoria di tutela il nascituro.

Tanto da un punto di vista laico quanto confessionale, infatti, “il nascituro in quanto tale – afferma l’avvocato Musso – rientra in una sfera di ‘innocenza assoluta’ e dunque merita di avere una tutela maggiore proprio in quanto incapace di esprimere la propria volontà e dunque di auto-tutelarsi”. Uno dei documenti ecclesiali più eloquenti in tal senso è sicuramente la Costituzione Pastorale “Gaudium et Spes” che al numero 51, come sottolinea Musso, afferma chiaramente che “agli uomini è affidata l'altissima missione di proteggere la vita: missione che deve essere adempiuta in modo degno dell'uomo. Perciò la vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura e l'aborto e l'infanticidio sono delitti abominevoli”. Lo stesso concetto è ripreso nell’Enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II.

Allo stesso modo, spiega il canonista, per i cattolici anche chi collabora all’aborto pone in essere non solo un reato ma un peccato, tanto da essere contenuto nel Codice di Diritto Canonico del 1917 al canone 2350 che, al I comma, sanciva che “i procuratori di aborto, non eccettuata la madre, incorrono nella scomunica”.

Non sembra dunque avere senso fare una contrapposizione valoriale tra aborto e pena di morte, tra qualità della vita ed eutanasia. Non perché una di queste pratiche sia peggiore di altre o più “giustificabile” di altre, semplicemente perché la vita va tutelate sempre, in ogni sua sfaccettatura ed accogliere le istanze religiose in questo caso non significherebbe avere un’ingerenza confessionale, ma al contrario prendere ciò che di buono le tradizioni ecclesiali possono offrire alla comunità tutta.

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