Oggi entriamo nel cuore della dimostrazione dell’esistenza della teoria gender .
Per leggere la prima parte cliccare qui: Cosa intendiamo con l’espressione “teoria gender”?
Parte II. Esiste la teoria gender? viene promossa da qualche Istituzione?
Premessa: cercheremo di procedere in modo rigoroso, rimandando ove possibile ai documenti autentici e ufficiali. In questa seconda parte mostreremo come la “teoria gender”, espressione di cui abbiamo spiegato la legittimità e il significato nella prima parte, esista effettivamente, e non solo nelle menti di coloro che la denunciano e pretendono di combatterla. Anzi, viene elaborata o promossa non solo da alcuni ideologi o “studiosi di genere”, ma anche da importanti istituzioni.
Riscontreremo negli atti e documenti istituzionali, e nei progetti destinati alle scuole, le definizioni e i principi propri della teoria gender, oppure anche le conseguenze teoriche e pratiche in quanto derivano o sono collegate contestualmente a quelle definizioni e a quei principi.
In particolare ci interessano (come spiegato approfonditamente nella prima parte):
- le definizioni di “genere” (distinto dal sesso biologico) e di “identità di genere”;
- il principio della sostanziale indifferenza del sesso biologico rispetto alla costruzione dell’identità psicologica e del ruolo familiare e sociale di una persona;
- il principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico;
... e alcune delle conseguenze tipiche della teoria, che spesso si ritrovano nei documenti, in quanto collegate ai suddetti principi e definizioni:
- la qualificazione come stereotipi culturali di genere di praticamente tutti i comportamenti e i ruoli considerati tipicamente maschili o femminili;
- la normalità e promozione delle diverse famiglie omogenitoriali;
- la normalità e promozione dei diversi orientamenti sessuali (in particolare l’omosessualità).
Cominciamo con le citazioni di alcuni autori, studiosi di genere, senza avere la pretesa di esporre nemmeno parzialmente la storia della teoria di genere.
Nel 1955 i medici John Money, Joan Hampson e John Hampson, della John Hopkins University, introducono nella letteratura medica il termine “gender”. Money, nel suo Amore e mal d’amore (Feltrinelli, Milano 1983, p.298-299) formula le seguenti definizioni: il “genere” è “stato personale, sociale e legale di maschio, femmina o misto definito in base a criteri somatici e comportamentali più generali del semplice criterio genitale. (...) L’identità di genere è il vissuto privato del ruolo di genere, il ruolo di genere è la manifestazione pubblica dell’identità di genere di maschio, femmina o di individuo ambivalente (...) quale viene vissuta in particolare nell’immagine di sé e nel comportamento”. Ancora: “L’identità / ruolo di genere comprende tutto ciò che ha a che fare con le differenze comportamentali e psicologiche tra i sessi, indipendentemente dal fatto che siano intrinsecamente o estrinsecamente legate ai genitali” (p. 32-33).
Famoso è l’esperimento condotto da J. Money sui gemelli Reimer proprio per dimostrare l’assunto che il “gender”, comprendente gli aspetti psicologici, comportamentali e sociali, sarebbe una costruzione puramente culturale e sociale, indipendente dal sesso biologico. Non ci soffermiamo sulla questione, trattata tante volte su questo sito.
Su questa linea di pensiero si innesta a un certo punto la cultura femminista più radicale. Simone de Beauvoir, pronuncia quelle parole ormai famose, nel Secondo sesso (Il Saggiatore, Milano 2002, p.325): “Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna.”
Particolarmente esplicito è il pensiero della femminista Shulamith Firestone, nella Dialettica dei sessi (Guaraldi, Firenze 1974, p.12): “Il fine ultimo della rivoluzione femminista non consiste nell’eliminazione dei privilegi, ma nella stessa cancellazione delle distinzioni tra i sessi (...) Se ci sbarazzassimo della famiglia ci sbarazzeremmo anche delle repressioni che vedono la sessualità posta in formazioni specifiche. (...) Il nostro passo finale deve essere l’eliminazione della stessa condizione di femminilità e di infanzia.”
Sempre nel contesto del femminismo, concetti tipici del pensiero gender si trovano anche nel Cyborg Manifesto (1985) di Donna Haraway: “Non c’è nulla nell’essere “femmine” che vincoli naturalmente le donne. Non esiste nemmeno qualcosa come “essere” femmine, in sé una categoria altamente complessa, costruita da controversi discorsi scientifici sulla sessualità (...) La consapevolezza del genere, della razza o della classe è qualcosa che ci viene imposto dalla terribile esperienza storica delle contraddittorie realtà sociali del patriarcato, del colonialismo e del capitalismo” (traduzione mia: cercare testo “There is not even such a state” al seguente link).
Una forma più matura della teoria la troviamo negli scritti di Judith Butler (nata nel 1956, ancora in vita), tra i più importanti esponenti contemporanei della “Gender Theory” e della “Queer Theory”. In Gender trouble. Feminism and the subversion of identity (Routledge, New York 2007, p.7) afferma: “Il genere è costruito socialmente, non è né il risultato casuale del sesso né sembra essere fisso come il sesso. Se il genere rappresenta il significato culturale che assume il corpo sessuato, allora non si può più dire che il genere derivi dal sesso in nessun modo. Portata alle logiche conseguenze, la distinzione sesso/genere suggerisce una discontinuità radicale tra i corpi sessuati e i generi costruiti socialmente.”
In una intervista del 2013 al Nouvel Observateur, Judith Butler precisa di non aver inventato lei gli “studi di genere” e aggiunge: “La nozione di “genere” viene utilizzata dopo gli anni 1960 negli Stati Uniti in sociologia e antropologia. In Francia, in particolare sotto l’influsso di Lévi-Strauss, si è preferito per lungo tempo parlare di “differenze sessuali”. Negli anni ’80 e ’90, l’incrocio tra la tradizione antropologica americana e lo strutturalismo francese ha fatto nascere la teoria di genere (...) Noi non abbiamo mai una relazione semplice, trasparente e innegabile con il sesso biologico. Dobbiamo passare attraverso un quadro discorsivo, ed è questo il processo che interessa la teoria di genere [théorie du genre].”
Noto en passant che nel mondo anglosassone e francese, i cultori degli studi di genere (si veda per altri esempi qui e qui) non si fanno tanti problemi a utilizzare l’espressione “gender theory”, “théorie du genre” (cioè “teoria di genere”) o “gender theorist” (“teorico di genere”), contrariamente a quel che succede da noi dove, per motivi misteriosi e ingiustificati, l’espressione viene rifiutata quasi con orrore (spesso proprio da coloro che la promuovono).
Col passare degli anni e a causa di meccanismi che non ci interessa in questo momento approfondire, queste tesi vengono recepite in documenti provenienti da istituzioni internazionali e nazionali. Limitiamo il nostro discorso ai tempi più recenti.
Tra i documenti internazionali che introducono abbastanza chiaramente la prospettiva gender possiamo sicuramente menzionare la Convenzione di Istanbul del 2011. Il tema affrontato è quello del contrasto della violenza contro le donne, finalità ovviamente condivisibile. Tuttavia questa finalità viene attuata in un contesto che risente della teoria di genere e delle posizioni del femminismo radicale. Nel preambolo si legge: “Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. A scanso di equivoci si definisce il termine “genere”: “Articolo 3. Definizioni. (...) (c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. Inoltre si precisa all’art. 4 che l’attuazione delle disposizioni della Convenzione “deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sulla razza, sul colore (...) sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, ecc.”
Il documento internazionale che forse più chiaramente promuove la teoria di genere è una recente Risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, approvata lo scorso 22 aprile 2015, intitolata: “Discriminazione contro le persone transgender in Europa“. Al paragrafo 6.2.1 della Risoluzione si chiede agli Stati di prevedere “procedure rapide, trasparenti e accessibili, basate sull’autodeterminazione, per cambiare il nome e il sesso anagrafico delle persone transgender sui certificati di nascita, carte d’identità, (ecc. ...)”. A paragrafo 6.2.4 si chiede agli Stati di “considerare l’introduzione di un’opzione al terzo genere sulle carte d’identità per coloro che lo richiedono”. Al 6.3.3 si chiede di “correggere le classificazioni di patologie utilizzate a livello nazionale e promuovere la revisione delle classificazioni internazionali, in modo da garantire che le persone transgender, inclusi i bambini, non siano considerati come affetti da patologia mentale“.
La Risoluzione chiede, in sostanza, che venga depatologizzata la “disforia di genere”: infatti secondo l’interpretazione più estrema (e pura) del principio dell’indifferenza del sesso biologico, il contrasto tra questo e l’identità di genere non è necessariamente problematico, perché il sesso biologico è indipendente dal profilo psicologico. L’identità transgender non sarebbe patologica. Inoltre per (l’interpretazione più radicale del) principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico, la sola identità di genere sarebbe sufficiente per essere pubblicamente identificato in base al genere percepito (attraverso delle procedure legali rapide e semplici basate sulla autodeterminazione, auspicate dalla Risoluzione), nonostante il sesso biologico contrario.
La Risoluzione ci regala un’altra perla gender. Al paragrafo 5: “L’Assemblea guarda con favore all’emergere del diritto all’identità di genere, per prima riconosciuto nella legislazione di Malta, che assicura a ogni individuo il diritto al riconoscimento della propria identità di genere, e il diritto a essere identificati e trattati in armonia con questa identità“. A quanto pare, emerge un nuovo diritto umano all’identità di genere. Concretamente, se, ad esempio, una persona che è geneticamente, morfologicamente, neurologicamente, insomma, biologicamente uomo, si percepisse come “donna” (identità transgender), avrebbe il diritto di essere riconosciuto e trattato da tutti come donna. Altrimenti si commetterebbe nei suoi confronti una “discriminazione” sulla base dell’identità di genere e una violazione del nuovo diritto umano (emergente).
Chiarissimo. Per rendere il tutto ancora più chiaro, si può anche consultare il Rapporto esplicativo della Risoluzione che a p.5 ci fornisce tutte le definizioni necessarie (“transgender”, “identità di genere”, ecc.). Il rapporto nota con grande soddisfazione (p.13, n. 57) che l’11 giugno 2014 il Parlamento danese ha approvato delle procedure di riconoscimento del genere che hanno reso la Danimarca “il primo paese in Europa a basare il riconoscimento legale del genere esclusivamente sull’autodeterminazione della persona transgender.”
E’ interessante rilevare che su 7 rappresentanti italiani al Consiglio d’Europa, ben 6 hanno votato a favore si questa Risoluzione ispirata alla più pura teoria del gender (vedi a questo link). Solo un voto contrario. Tutti sono anche deputati o senatori nel Parlamento italiano (due del Pd, tre del M5S; unico voto contrario di un senatore della Lega Nord).
Queste posizioni dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa costituiscono la recezione a livello istituzionale di tesi promosse da associazioni LGBT, o specificamente transgender (come “Transgender Europe“), ma anche da rilevantissime associazioni che operano a livello internazionale per i cosiddetti “diritti umani”.
Si pensi a Amnesty International: questa associazione promuove da anni le tesi più radicali della teoria gender. Per convincersene basta leggere la “Dichiarazione programmatica di Amnesty International sui diritti delle persone transgender“. In questa dichiarazione troviamo tra l’altro una definizione particolarmente ampia di “transgender” (p. 1): “persone la cui identità di genere e/o espressione di genere è differente dalle aspettative convenzionali basate sul sesso biologico assegnato loro alla nascita (...) non tutte le persone transgender si identificano come maschi o femmine; il termine transgender può comprendere persone che appartengono al terzo genere, nonché persone che si identificano con più di un genere o con nessuno (...) Questa definizione include, tra le altre, persone transgender e transessuali, travestiti, crossdresser, no gender, liminal gender, multigender e queer, nonché persone intersessuate e dal genere variabile ...”.
Tutti questi “gender”, del resto, sarebbero perfettamente normali e non patologici, in quanto anche Amnesty (a p. 5 e 6) promuove la depatologizzazione di ogni identità transgender. Il documento ovviamente dà per scontata l’assoluta normalità delle famiglie omogenitoriali e dell’orientamento omosessuale (che possono derivare del resto da una transizione di genere).
E’ indicativo che questo documento gender di Amnesty sia reperibile alla sezione “risorse utili” del sito dedicato alla scuola (nel contesto del progetto “Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia”). Approfondiremo quest’aspetto nella terza parte del nostro studio.
La teoria gender, promossa a livello internazionale, non poteva che introdursi in qualche modo, sia per via culturale che istituzionale, anche in Italia.
Lasciando da parte per il momento le associazioni, a livello istituzionale non si può non menzionare l’attivismo dell’UNAR in questo senso. L’UNAR è l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, istituito con decreto legislativo del 9 luglio 2003, n. 215, all’interno del Dipartimento delle Pari Opportunità (Presidenza del Consiglio dei Ministri). Nonostante il nome (e il principio di legalità) l’UNAR si occupa spesso di questioni LGBT e ha emanato diversi documenti ispirati alla teoria gender.
Consideriamo le “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT” (reperibili a questo link), dove “T” sta sia per “transessuale” che per “transgender” (come si precisa a p.3). Troviamo facilmente le definizioni, i principi e le conseguenze della prospettiva gender.
Anzitutto le definizioni (a p. 7: identità di genere, ruolo di genere; e poi nel glossario da p. 24: transgender, queer, omonegatività, ecc.). La definizione di “identità di genere” a p. 7 fa già capire l’adesione al principio dell’indifferenza del sesso biologico, rispetto a ciò che costituisce l’uomo e la donna nel senso più profondo, e al principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico: “Identità di genere è il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: “Io sono un uomo, io sono una donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita.”
Il secondo principio è ancora esemplarmente espresso alla p. 12, rispetto al caso della transessualità: “Per la transessualità vale il principio dell’identità. Se la persona di cui si parla transita dal maschile al femminile, non importa in che fase della transizione si trovi, né se si sta sottoponendo all’iter della riassegnazione chirurgica del sesso, se lei sente di essere una donna va trattata come tale. Lo stesso vale per la transizione female to male”.
Pure le conseguenze della teoria gender sono palesi nelle “Linee guida”: la promozione dei modelli familiari omogenitoriali è evidente dalle pp. 14 a 18, e la normalizzazione dell’omosessualità (e della transessualità) si rileva in tutto il documento. Anche la considerazione dei comportamenti tipicamente maschili o femminili come meri stereotipi che non hanno mai una base naturale ma sarebbero solo costruzioni sociali, si riscontra ad esempio nella definizione di “ruolo di genere” alle pp. 7-8.
Lo stesso UNAR ha emanato la famosa “Strategia nazionale per il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”. Questa riguarda anche la scuola, ed è quindi oggetto della terza e ultima parte di questo studio. Parte in cui mostreremo come, anche in Italia, la teoria gender si sia infiltrata all’interno del sistema scolastico: strategie nazionali, progetti, materiale didattico, fiabe per bambini.
Solo educazione al rispetto delle diversità, contro il bullismo e le discriminazioni, oppure promozione della teoria gender?
Lo vedremo la prossima volta.
Segue la terza e ultima parte: La teoria gender viene introdotta in qualche modo nelle nostre scuole?
Alessandro Fiore