Uno dei motivi principali, se non il principale, per cui ai minori con disforia di genere viene prescritta off label, cioè per finalità diverse da quelle per cui è stata creata, la triptorelina - medicina da prescriversi per problemi legati al tumore alla prostata – è quello secondo cui essa, bloccando la pubertà di questi giovani, concorre al loro benessere. Avviare così alla transizione di genere ragazzini che “si sentono” femmine, e ragazzine che “si sentono maschi”, viene detto, è fondamentale non solo per farli sentire meglio, ma per abbassare i rischi che costoro sperimentino depressione, pensieri suicidari e altre forme di disagio. Ma è davvero così?
Alla luce anche di quanto sta avvenendo con l’Ospedale Careggi di Firenze dove, a seguito d’una interrogazione parlamentare di Gasparri, il Ministero della Salute ha inviato i suoi ispettori per capire meglio se l’iter di transizione sessuale ai minori venga offerto con le dovute cautele, il mondo Lgbt si è immediatamente mobilitato a difesa di questo centro. Con lo scopo di dire che certamente sì, i bloccanti della pubertà concorrono al bene dei minori.
La realtà però è ben diversa e ci porta ad affermare che «non esistono prove» che la transizione sessuale «aiuti» i minori con disforia di genere o che dia loro qualsivoglia beneficio. Non solo: «Non esistono studi a lungo termine che dimostrino benefici» e neppure «che valutino i rischi a associati a interventi medici e chirurgici forniti a questi adolescenti». Sono parole pesanti come pietre eppure difficili da contestare, essendo tratte dall’ultima e più accurata revisione della letteratura scientifica sulla materia, a cura della pediatra californiana Jane E. Anderson dell’American College of Pediatricians.
Nel suo lavoro fresco di pubblicazione, Mental health in adolescents with incongruence of gender identity and biological Sex, Anderson mette sotto la sua lente il cosiddetto approccio affermativo di genere, ossia l’idea che bloccare la pubertà dei minori con disforia di genere li faccia star meglio; un’idea, viene scritto in questo lavoro – arricchito da 80 citazioni bibliografiche – forse suggestiva, ma senza basi. «Sia prima sia dopo la 'terapia di affermazione di genere'», si legge infatti nello studio, «gli adolescenti che presentano incongruenze nell'identità di genere corrono un rischio maggiore di psicopatologia rispetto ai loro coetanei che si identificano con il loro sesso biologico», motivo per cui si può concludere che «non ci sono prove a lungo termine che i problemi di salute mentale siano diminuiti o alleviati dopo la “terapia di affermazione del genere».
Per pervenire a tale conclusione, la studiosa ha esaminato ogni ricerca finora eseguita. In particolare, è rimasta colpita da un’indagine effettuata dalla McMaster University su incarico della Florida agency for health care administration: su 61 revisioni della letteratura trovate, solo 14 sono state ritenute in grado di rispondere ad un esame approfondito e, in ogni caso, non si son trovati studi seri che confrontino le condizioni tra i minori che usano e non usano bloccanti della pubertà; di conseguenza gli autori di tale revisione hanno concluso che «non è noto se le persone con disforia di genere che assumono bloccanti della pubertà sperimentino maggiori miglioramenti nella disforia di genere, nella depressione, nell'ansia e nella qualità della vita rispetto a quelle con disforia di genere che non li usano».
Mancano pure, come se non bastasse, riscontri «sugli effetti dei bloccanti della pubertà sull’idea suicidaria». Che fare, dunque, con i bloccanti della pubertà? «Come minimo dovrebbero essere condotti studi controllati a lungo termine se si vogliono continuare questi interventi», sono le conclusioni cui perviene la dottoressa Anderson. Parole difficili da contestare, oggettivamente. Eppure, come ha rilevato da Linkiesta, ci troviamo tutt’ora in quella paradossale situazione per cui «se qualcuno osa dire che gli ormoni non sono caramelline gommose da dare al primo ragazzo triste, viene accusato di transfobia». Purtroppo è così.